domenica 26 aprile 2015

La più antica tipografia di Roma

Gli ambienti dell'antica tipografia di
piazza dei Massimi (foto Marco Gradozzi)
Tra Campo de' Fiori e Piazza Navona, a ridosso dell'antica via Papale, si apre piazza dei Massimi, un luogo veramente caratteristico se non fosse letteralmente sommerso dalle automobili in sosta a qualunque ora del giorno e della notte. Al centro dello slargo, quando non è nascosta dalle auto, c'è una colonna, forse l'unica superstite dell'antico Odeon di Domiziano che in realtà dovrebbe trovarsi sotto la piazza, a qualche metro di profondità. Sulla facciata affrescata del palazzo di proprietà della famiglia Massimo, al livello del pianterreno, spicca un'epigrafe che ricorda un avvenimento importantissimo; è qui, infatti, che nel 1467 fu stampato per la prima volta un libro a Roma.

L'epigrafe celebrativa di piazza
dei Massimi (foto Marco Gradozzi)
Nella seconda metà del Quattrocento i tipografi tedeschi Arnold Pannartz e Konrad Sweynheym, forse allievi/operai di Gutenberg (1455), lasciarono Magonza per raggiungere il monastero benedettino di S. Scolastica a Subiaco. Probabilmente i monaci percepirono le grandi potenzialità dell'invenzione di Gutenberg (la stampa a caratteri mobili), che utilizzarono per diffondere le numerose opere conservate nella biblioteca del monastero. Nel 1467 i due tipografi tedeschi lasciarono Subiaco per recarsi a Roma, dove presero in affitto alcuni locali ("iuxta Campum Flore") di proprietà di Pietro e Francesco "de Maximis", esponenti di un'importante famiglia romana di mercanti e banchieri, con interessi anche nel commercio del piombo, dello stagno, dell'antimonio e della carta (materiali fondamentali nella tipografia). La scelta del luogo in cui installare la tipografia non fu assolutamente casuale; fin dal Trecento erano conosciute nel rione S. Eustachio sia le scuole sia le biblioteche di S. Agostino e di S. Maria sopra Minerva, a due passi da piazza Navona. Nella seconda metà del Quattrocento papa Eugenio IV (1431-1447) acquistò, sempre nel rione S. Eustachio, alcuni immobili destinati allo Studium Urbis, l'università di Roma. È perciò comprensibile il motivo per cui in questa zona fossero concentrate le attività commerciali legate al mondo della cultura (vendita di libri stampati, di libri manoscritti, di carta e pergamene). E fu proprio negli ambienti al pianoterra di palazzo Massimo che, nel 1467, i due tipografi tedeschi stamparono la loro prima opera romana, le "Epistulae ad familiares" di Cicerone.

lunedì 20 aprile 2015

La lupa, il leone e il drago ... quando le fontane parlavano

Palazzo Capilupi
(foto Marco Gradozzi)
È noto a tutti come le fontane di Roma abbiano una vita propria, perciò non solo camminano, ma parlano, soprattutto tra loro. Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento ebbe luogo a Roma una vera e propria rivoluzione culturale, grazie alla conduzione della rinnovata Acqua Vergine (agosto 1570), dell'Acqua Felice (1587) e dell'Acqua Paola (1612); finalmente, dopo molti secoli, i romani non erano più obbligati a bere l'acqua del Tevere. Com'è facile immaginare, il Comune e la Camera Apostolica ricevettero moltissime richieste di allaccio alle condutture dei nuovi acquedotti. Fu in questo contesto che nacquero le prime fontanelle semipubbliche. I privati che ottenevano l'acqua avevano l'obbligo di  realizzare la fonte a proprie spese, inoltre, dovevano mantenerla efficiente; osservando questa disposizione, il privato poteva utilizzare l'acqua di ritorno che, anziché defluire nelle fognature, era condotta nella sua proprietà. 

L'iscrizione della fontana della Lupa
(foto Marco Gradozzi)
Nel 1578 l'ecclesiastico mantovano Camillo Capilupi, proprietario di un palazzo in via dei Prefetti (civico 17), chiese al Comune la concessione di un certo quantitativo d'acqua che doveva alimentare "una fontana pubblica da esso e dai suoi fratelli edificata nel detto rione". Come stabilito, Capilupi collocò la fontanella in strada, all'angolo del proprio palazzo. Per la decorazione della fonte (ormai scomparsa) Capilupi si ispirò al proprio cognome, come ci fa sapere un Anonimo (1588), che la descrive come una "una fontana grottesca con mezza statua di lupo, la cui bocca dà l'acqua in un piccolo vasetto o conca, dietro la quale grottesca è essa lupa". Al di sopra della fontana Capilupi fece collocare un'iscrizione (tuttora visibile nell'androne del palazzo) da lui creata: "Come il dolce latte dette (la lupa) non feroce ai gemelli, così questo lupo mite ti offre, o vicino, quest'acqua che scorre continua, più dolce anche del latte, più pura dell'elettro, più fredda della neve. Pertanto di qui, il ragazzo, il giovane, il vecchio portino assidui a casa le linfe con una brocca ben tersa. Ma questa fontanina è proibita ai cavalli ed agli asinelli, e nemmeno vengano a bere con la bocca indecente né il cane, né il capro. 1578". 

L'iscrizione della fontana del Leone
(foto Marco Gradozzi)
Un anno dopo la realizzazione della fontana di via dei Prefetti (le fontane hanno i loro tempi) comparve la risposta ai versi del Capilupi. Un privato costruì la sua fontanella semipubblica a ridosso di un edificio situato in fondo a via di Panico, quasi all'angolo con piazza di Ponte (nell'Ottocento l'archeologo Carlo Fea la ricorda vicino al civico 62). Questa, che aveva l'aspetto di "un leoncino tra sassi, a guisa di quella di Capilupo in Campomarzo" (Anonimo del 1588), era accompagnata dall'ormai consueta epigrafe poetica: "Come il lupo nel Campomarzio, più mansueto di un agnello, dalla bocca distribuisce al popolo l'acque vergini, così pure qui un leone più mite di un capretto dalla bocca spande l'onda illustre cui presiede la Vergine. Non c'è da meravigliarsi, un Drago che pio comanda su tutta la terra, col suo esempio rende tranquilli l'uno e l'altro. 1579". 

La fontana del Leone
(foto Marco Gradozzi)
Il Drago che sapeva calmare sia il lupo che il leone era Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585), il papa che diffuse l'istituzione delle fontanelle semipubbliche. L'autore dell'iscrizione citò l'animale (rappresentato nello stemma della famiglia Boncompagni) per farci sapere chi era papa al momento della costruzione della fontana. Nel 1930, in seguito alla scomparsa dell'isolato tra via di Panico e via Tor di Nona, la fontanella del leone e la sua epigrafe furono spostate sulla facciata esterna del convento di S. Salvatore in Lauro, costantemente nascoste da automobili e motorini ... ma questa è un'altra storia.

sabato 18 aprile 2015

Al Bar dello Sport


Obelisco del Foro Italico
(foto Marco Gradozzi)
C'era una volta l'Italia, ma forse non c'è mai stata né mai ci sarà. Ieri, la Presidente della Camera, al termine della celebrazione del settantesimo anniversario della Resistenza, ha auspicato la rimozione della scritta "DUX" dall'obelisco del Foro Italico. A stretto giro di posta è arrivata la replica del Presidente del Partito Democratico Matteo Orfini: "Noi siamo un Paese antifascista, i principi della lotta antifascista sono scritti nella nostra Costituzione. Non abbiamo bisogno di cancellare la nostra memoria, seppur a tratti drammatica. Credo che la damnatio memoriae sia un elemento di debolezza e non di forza da parte di chi la esercita". Parole sensate. 

Colosseo (foto Marco Gradozzi)
Se la Presidente della Camera conoscesse la genesi del nostro patrimonio artistico, saprebbe che la maggior parte delle opere d'arte e dei monumenti sono l'espressione della propaganda politica dei committenti di ogni epoca, dai Fori Imperiali di Cesare, Augusto, Vespasiano, Domiziano, Nerva e Traiano, al Colosseo dei Flavi, al Teatro di Pompeo, per non parlare di tutti i capolavori realizzati dai più grandi artisti per celebrare la potenza della Chiesa. E allora che facciamo? Distruggiamo il Colosseo e San Pietro? Ci comportiamo come gli integralisti in Iraq o come i talebani in Afghanistan? 

Stadio dei Marmi
(foto Marco Gradozzi)
Nonostante le abominevoli nefandezze che l'hanno caratterizzata, anche l'epoca fascista ha lasciato tracce importanti sia sotto l'aspetto artistico sia architettonico (ad esempio il complesso del Foro Italico). L'ideologia, insieme alla religione, è la più grande truffa di sempre; un secolo fa eravamo tutti monarchici, poi tutti fascisti, poi tutti antifascisti; oggi siamo tutti competenti, come quando andiamo al bar a prendere il caffè e commentiamo gli avvenimenti sportivi. Una tempo eravamo un popolo di poeti, navigatori e santi, mentre oggi siamo un popolo di piloti, calciatori e allenatori. È da un pezzo che ho smesso di credere, ed è stato come disintossicarmi; l'ideologia ti distrugge la vita, come la droga, come l'alcol. Abbasso l'ideologia e viva la vita.

mercoledì 15 aprile 2015

La fontana di piazza Giudea

piazza Giudea (Falda)
Come tutti sanno le fontane camminano; infatti, quando trovano un luogo gradito vi si fermano qualche decennio, oppure qualche secolo, ma poi sono di nuovo in giro, basti pensare alle recenti vicissitudini della fontana di piazza Testaccio. Come tutti sanno le fontane esprimono dei desideri; infatti, la fontana di piazza delle Cinque Scole mi ha recentemente confidato la volontà di tornare nel suo luogo d'origine: piazza Giudea. 

piazza Giudea nel 1693
Il 4 novembre 1570 la Congregatione, riunita in via Giulia nel palazzo del cardinale Ricci (presidente della Congregatione), scelse diciotto luoghi in cui sarebbero state collocate le nuove fontane alimentate dalla restaurata Acqua Vergine. La più distante dal castello di distribuzione di via di S. Sebastianello era quella che avrebbe consentito agli ebrei del Ghetto - istituito nel 1555 sulla riva sinistra dall'abominevole Paolo V - di utilizzare un'acqua sicuramente migliore di quella del Tevere. La fontana sarebbe stata collocata in piazza Giudea, in prossimità di uno degli ingressi del "serraglio degli ebrei". Nel 1580, mentre fervevano i lavori per portare i condotti dalla fontana di piazza Campo de' fiori a piazza Giudea, la potente famiglia Mattei riuscì ad ottenerne la deviazione verso la piazza che si apriva di fronte al loro palazzo; l'unica condizione che gli fu posta fu l'obbligo di lastricare la piazza e la manutenzione della fontana. Nel 1587, all'epoca di Sisto V, entrò in funzione l'Acqua Felice; anche stavolta piazza Giudea fu inserita nella lista dei luoghi in cui installare fontane. Pochi anni dopo (1591-1593) Giacomo della Porta riuscì a realizzare la fontana, che fu collocata all'esterno di uno dei cinque portoni che in quel periodo davano accesso al Ghetto

Il "frontespicio di Nerone" in una
stampa del Seicento (Giovannoli).
Sullo sfondo il palazzo del Quirinale.
La vasca, costruita dallo scalpellino Pietro Gucci, fu realizzata utilizzando l'enorme base di una colonna rinvenuta nell'area del cosiddetto "frontespicio di Nerone" (così era chiamato il grande tempio situato sulla platea del Quirinale), come racconta lo scultore cinquecentesco Flaminio Vacca (Memorie, 78): "... fu trovato un gran Colonnato di marmi salini, il maggior de’ membri, ch’io abbia ancor visto: Colonne grosse nove palmi maravigliose, delle quali ne furono fatti varj lavori ... di una base sì fece la Tazza della fonte del Popolo, e di un’altra quella di Piazza Giudia". Alla fine dell'Ottocento la fontana di piazza Giudea fu smontata e trasferita in un magazzino comunale. 

La fontana della chiesa di S. Onofrio
(foto Marco Gradozzi)
Nel 1924 il catino e il balaustro (l'elemento architettonico a forma di piccola colonna che sostiene il catino) furono riutilizzati per una piccola fontana costruita di fronte alla chiesa di S.Onofrio, sul Gianicolo. 

La fontana di Giacomo della Porta
in piazza delle Cinque Scole
(foto Marco Gradozzi)
Nel 1930 la fontana di Della Porta fu ricostituita in via del Progresso (oggi piazza delle Cinque Scole), mentre i pezzi utilizzati per la fontana di S. Onofrio furono sostituiti da copie. 

A sinistra piazza delle Cinque Scole,
a destra piazza Giudea
(Google Earth)
Sulla pavimentazione di piazza Giudea è attualmente visibile una guida in travertino che mostra l'ubicazione dell'antica fontana, ma lei, sì proprio lei, mi chiesto di rivolgere al sindaco un'accorata preghiera: perché non mi riporti a casetta mia, in piazza Giudea, lontano da questo orrendo parcheggio che oggi mi umilia?

mercoledì 8 aprile 2015

Il sogno di Giuditta

Via della Lungaretta 97; Lapide 
commemorativa di Giuditta Tavani
(foto M. Gradozzi)
Via della Lungaretta è una delle poche strade della nostra città che può vantare una frequentazione millenaria, infatti, il suo tracciato urbano si sovrappone (fino a S. Maria in Trastevere) a quello della via Aurelia (II secolo a.C.), l'antica strada romana che da ponte Aemilius (ponte Rotto) entrava dentro Trastevere, arrampicandosi sul Gianicolo fino a porta Aurelia (porta S. Pancrazio), da dove usciva puntando verso la costa. La moltitudine di gente che oggi percorre questa strada, frastornata dalle bellezze trasteverine che spuntano da ogni angolo, neanche si accorge della grande lapide posta sopra al civico 97. 

L'ingresso della casa
di Giulio Ajani
(foto M. Gradozzi)
Nell'ottobre del 1867 la casa, appartenente a Giulio Ajani (un imprenditore tessile che aveva il suo lanificio al piano terra dello stabile), era diventata il centro di raccolta di un gruppo di repubblicani pronti a mettere in gioco le proprie vite per porre fine allo Stato Pontificio. Tra gli ospiti dell'Ajani c'era anche Giuditta Tavani, insieme al marito (Francesco Arquati) e al figlio. Il clima che si respirava in quei giorni era di eccitazione ed attesa, infatti, sembrava che di lì a poco sarebbero arrivati sia i garibaldini sia le truppe italiane. Il 25 ottobre, probabilmente avvertiti da una soffiata, gli zuavi pontifici si presentarono all'ingresso del lanificio, mentre altri si posizionarono sul campanile del vicino monastero di S. Rufina. 

"L'eccidio della famiglia Tavani Arquati"
Carlo Ademollo 1880
Per tre volte gli zuavi cercarono, senza successo, di entrare nell'edificio; quando finalmente vi riuscirono la battaglia divampò violentissima, e fu in quel momento che il sogno libertario di Giuditta svanì.

Mastro Lorenzo e la scalinata del tempio di Serapide

L'epigrafe di Mastro Lorenzo
(foto M. Gradozzi)
Il 1348 fu per Roma un anno veramente terribile; la peste, la carestia e infine un potente terremoto (9 e 10 settembre) spinsero la popolazione a portare in processione, dal Campidoglio a S. Pietro, l'immagine della Madonna Advocata, la famosa icona dell'XI secolo custodita nella chiesa di S. Maria in Capitolio (Aracoeli). Al termine della pestilenza, per ringraziare la Vergine della grazia ricevuta, fu deciso di dotare la chiesa di una magnifica scalinata, inaugurata il 25 ottobre 1348. Infatti, come recita la targa a sinistra dell'ingresso principale, Magister Laurentius Simeoni Andreotii Andrea Karoli fabricator de Roma de regione Columpne fundavit prosecutus est et consumavit ut principalis magister hoc opus scalarum inceptum anno domini M CCCXL VIII die XXV octobris.

Piazza dei Ss. Apostoli e il tempio
di Ercole (Van Cleef)
La scalinata dell'Aracoeli fu realizzata con marmi provenienti da un gigantesco tempio situato sul Quirinale; la sua identificazione è tuttora sconosciuta, anche se recenti studi (Maria Cristina Capanna) l'hanno messo in relazione con un complesso di epoca severiana costituito da due edifici: il primo, forse dedicato a Ercole e Bacco (Santangeli), era situato sulla piattaforma del Quirinale e aveva la fronte rivolta a Est; il secondo, dedicato a Serapide, era collocato a pochi metri di distanza, presso la chiesa di S. Silvestro al Quirinale, nell'area oggi occupata dall'Università Gregoriana e dai Giardini dei Colonna.

Pianta ed alzato (Sallustio Peruzzi)
Il grande dislivello tra questo edificio e la strada sottostante (l'attuale via della Pilotta/via dei Lucchesi) era superato grazie a una scalinata spettacolare, sulla cui sommità si doveva godere di un panorama fantastico, veramente mozzafiato. Nel Cinquecento e nel Seicento - come mostrano alcune incisioni - la parte posteriore della cella del tempio di Ercole era ancora visibile.

1-scalinata tempio; 2-scalinata Aracoeli
(foto Google Earth)

venerdì 3 aprile 2015

Il giocatore sfortunato di vicolo delle Palle

(foto M. Gradozzi)
La chiesa di S. Giovanni Battista dei Fiorentini conserva, tra le tante immagini sacre, un'edicola mariana quattrocentesca dalla storia molto particolare. L'immagine, oggi chiamata Madonna della Misericordia, collocata al centro della cappella del Sacramento (a destra dell'altare maggiore), fu acquisita dalla chiesa nel 1614, quando fu protagonista di un fatto curioso. A partire dalla fine del Quattrocento la riva sinistra del fiume, di fronte a Castel S. Angelo, venne stabilmente occupata da una comunità di mercanti, banchieri e artigiani fiorentini e toscani. In pochi anni la zona cambiò radicalmente aspetto, grazie anche alla forte attività urbanistica di papa Giulio II (1503-1513), ispiratore del rettifilo chiamato Strada Giulia e ideatore del progetto della chiesa dedicata a S. Giovanni Battista (1508), patrono di Firenze.

Area in cui era consentito il gioco
della palla (foto M. Gradozzi)
Lo svago più singolare importato a Roma dai fiorentini era senz'altro il gioco della palla, infatti, come racconta lo scrittore Benedetto Varchi (1503-1565), nella città toscana i giovani, soprattutto nobili, avevano l'abitudine, durante il Carnevale, di andare in giro travestiti e muniti di palla; giunti nella zona del Mercato Vecchio i ragazzi si mescolavano agli avventori, lanciandosi il pallone e seminando il panico tra le botteghe di commercianti ed artigiani, che a causa del caos erano costretti alla chiusura. Tale abitudine si propagò anche nella nostra città, generando una tensione tale che le autorità romane furono costrette a circoscrivere il gioco della palla alla sola zona di Banchi (abitata prevalentemente da toscani); ecco perché alcuni giorni prima del Carnevale un banditore saliva i gradini della chiesa di S. Celso, dove leggeva un avviso del Governatore di Roma, che stabiliva i limiti stradali del gioco. Nel 1535, a causa dei continui tafferugli fra giocatori e gente comune, si stabilì di praticare il gioco della palla in un luogo sicuro, che avesse almeno un muro.

1-S. Giovanni dei Fiorentini;
2-vicolo delle Palle (Google Earth)
A tale scopo fu costruito uno sferisterio tra via Giulia e il fiume, sui resti del cantiere del Palazzo dei Tribunali (iniziato all'epoca di Giulio II e poi abbandonato). Uno dei vicoli che da Banchi portava allo sferisterio prese il nome di vicolo della Palla, cambiandolo col tempo in vicolo delle Palle.

vicolo delle Palle
(foto M. Gradozzi)
Tuttavia, nonostante lo sferisterio, si continuava a giocare in strada, e fu proprio nel vicolo della Palla, in una giornata di luglio del 1614, che un giocatore scagliò la sfera contro un'edicola mariana, danneggiandola. Il lancio sfortunato provocò al giovane la paralisi di un braccio, che guarì dopo quaranta giorni. La miracolosa guarigione fu attribuita alle preghiere del giocatore rivolte all'immagine mariana, che perciò fu trasferita nella vicina chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini.