lunedì 29 dicembre 2014

Orazio e la fontana

La fontana delle Anfore
in piazza dell'Emporio.
Vivere a Roma significa anche abituarsi alla vista delle rovine dei monumenti, al punto che non cerchiamo neanche più di immaginarli nel loro aspetto originario; opus reticulatum, cementicium, bipedali, mattoni di tufo e blocchi di tufo fanno parte del nostro orizzonte quotidiano, come i nasoni e i tombini col fascio littorio. Discutevo di questo, qualche giorno fa, con il mio amico Bruno, osservando in piazza dell'Emporio i malinconici resti su cui poggiava fino a qualche mese fa la Fontana delle Anfore, opera dell'architetto Pietro Lombardi (1926). La fontana, in travertino, è stata smontata e rimontata, dopo quasi un secolo, nella sua collocazione originaria, in piazza Testaccio, dove verrà inaugurata tra qualche settimana (forse). È impossibile immaginare il rivestimento di un nucleo in cementizio, così come è impossibile immaginare la fisionomia di un essere umano osservando semplicemente le sue ossa, perciò, ecco che si manifesta l'ennesima chiave di lettura della nostra città: Roma è anche una gigantesca necropoli di monumenti, che metaforicamente biancheggiano, proprio come le ossa viste dal poeta Orazio fuori da porta Esquilina, prima della rivoluzione urbanistica augustea.
La struttura in blocchi di tufo che
costituiva il nucleo della fontana.

martedì 9 dicembre 2014

La scoperta dell'Area Sacra di Largo Argentina

Il tracciato tra Piazza del Popolo
e la Stazione Trastevere
Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento il cambiamento urbanistico di Roma rese necessaria la realizzazione di nuovi tracciati stradali nel centro storico, fondamentali per lo sviluppo delle comunicazioni. Uno di essi avrebbe dovuto collegare il quadrante settentrionale (Porta del Popolo) con quello meridionale (Stazione Trastevere), passando attraverso strade antiche (via di Ripetta, via della Scrofa, via della Dogana Vecchia, via di Torre Argentina) e nuove (via Arenula, Ponte Garibaldi, viale del Re).

Il Piano Regolatore del 1909 stabilì l'allargamento della carreggiata di via di Torre Argentina, adeguandola a quella della nuova via Arenula. Nel 1914 l'Assessore al Comune Filippo Galassi progettò una variante al Piano Regolatore del 1909 secondo la quale la sede stradale di via di Torre Argentina sarebbe passata da otto a venti metri, perciò fu decisa la demolizione degli edifici posti di fronte al Teatro Argentina (palazzo Acquari e palazzo Cesarini-Chiassi).

L'area interessata dagli scavi del 1926
La presenza di resti archeologici sotto gli edifici dell'isolato (delimitato da via di Torre Argentina, via Florida, Corso Vittorio, via di S. Nicola dei Cesarini) era nota. Annesso alla chiesa di S. Nicola dei Cesarini era il convento dei Padri Somaschi, nel cortile del quale erano visibili i ruderi di un tempio rotondo (quattro colonne in tufo), mentre nel 1904 un saggio di scavo aveva portato alla luce parte del basamento di un tempio rettangolare (Tempio A). Nel 1913 l'archeologo Giuseppe Marchetti Longhi aveva segnalato all'autorità competente la scoperta nell'area di altri resti antichi, oltre a quelli noti. Nel 1917 la Variante di Galassi fu approvata; per i due templi ritrovati (A e B) fu decisa la musealizzazione all'interno di un cortile ricavato nel nuovo complesso.

Dopo la prima guerra mondiale la Società Romana dei Beni Stabili, proprietaria dell'area, ripresentò il progetto di Galassi, che fu modificato (su richiesta del Governatorato) dagli architetti Nori e Venturi. Il nuovo progetto prevedeva la demolizione dell'isolato e la costruzione di nuovi edifici, collocati però in una posizione più arretrata, tale da consentire l'allargamento di via di Torre Argentina (il prospetto di palazzo Acquari sarebbe dovuto arretrare di sedici metri). Marchetti Longhi riuscì a inserire nel progetto una serie di clausole attraverso le quali sarebbe stato possibile riscattare l'area se fosse stata dimostrata la sua importanza archeologica.

L'isolato demolito nel 1926
Nel 1926 iniziarono le demolizioni, che si svolsero in tre tempi:
·         demolizione dei palazzi Acquari e Rossi che si affacciavano su via di Torre Argentina; demolizione di parte del palazzo Chiassi-Cesarini fino al limite della retrostante chiesa di S. Nicola ai Cesarini.
·         demolizione del fronte prospettante su Corso Vittorio
·         demolizione dei fronti prospettanti sulle vie Florida e S. Nicola ai Cesarini.

Nonostante l'incarico di controllo dei lavori di demolizione e scavo (per segnalare eventuali scoperte archeologiche), Marchetti Longhi non riuscì a modificare i discutibili criteri con cui venivano realizzate le demolizioni: nessun saggio preliminare né rilievi del materiale archeologico emerso, nessuna segnalazione alle autorità dei ritrovamenti (il Governatorato era stato istituito nel 1925).

Il 25 giugno 1927 il Comitato di Storia ed Arte del Governatorato decise di procedere allo sterro generale per una valutazione esatta dei resti "degni di essere conservati". Il 23 agosto 1928, al termine delle demolizioni, fu chiaro che l'area era occupata da quattro templi di epoca repubblicana. Immediatamente si formarono due partiti: da una parte quelli favorevoli alla conservazione dei monumenti, dall'altra quelli favorevoli alla costruzione di un nuovo isolato. Il 15 ottobre 1928 Mussolini decise di salvare i templi repubblicani, rimborsando ai Beni Stabili i soldi spesi per acquistare e demolire le case (venti milioni di lire). L'area archeologica fu sistemata dal Munoz e inaugurata da Mussolini il 21 aprile 1929. L'attuale recinzione ha seguito i limiti segnati dalle demolizioni ma non gli originali confini dell'area, ancora da scoprire.

All'inizio degli anni Trenta, durante la realizzazione del recinto su via S. Nicola ai Cesarini (questo lato affacciava sulla fronte dei Templi), fu demolita la casa medievale con portico annessa alla Torre del Papito. Si salvarono dalla demolizione soltanto le colonne del portico che, in seguito, furono reimpiegate nella costruzione del falso-portico attuale.

Il Tempio D si trova ancora sotto via Florida
Il Tempio D non fu portato completamente alla luce per motivi economici. Il recinto dell'area fu completato nel 1940. La torre fu trasformata in abitazione del custode dell'area archeologica, collegata con una scala interna al piano dello scavo, al fine di rendere più agevole la sorveglianza. Nel 1942 il principe Borghese, Governatore di Roma, sospese i fondi destinati allo scavo. Nel 1955 i lavori per la realizzazione del sottopassaggio pedonale tra via Florida e via di Torre Argentina fecero venire alla luce alcuni resti archeologici che chiarirono la relazione tra il Teatro di Pompeo e l'Area Sacra.

domenica 9 novembre 2014

All'origine della fontana di Trevi

Dalla mappa di Duperac (1577) si osserva come 
la fontana di Trevi sia rivolta verso via del Corso
L'Acqua Vergine, inaugurata il 9 giugno del 19 a.C., fu il sesto acquedotto portato in città. L'acqua, "convogliata a Roma da un terreno di Lucullo", fu chiamata Vergine perché, secondo il mito, le sue sorgenti furono mostrate ai soldati romani da una giovane ragazza. L'acqua veniva raccolta all'interno di un bacino in cemento, all'ottavo miglio della via Collatina.
 
Il tracciato antico dell'Acqua Vergine partiva dalle sorgenti situate vicino alla via Collatina per terminare la sua corsa nei pressi del Pantheon, dove alimentava le terme di Agrippa. In epoca medievale l'acqua, le cui sorgenti si trovavano all'interno della tenuta di Salone, apparteneva al capitolo di S. Maria Maggiore.
 
La distanza tra le sorgenti (24 metri s.l.m.) e porta Maggiore (50 metri s.l.m.) era di soli dieci km., tuttavia, l'evidente differenza di quota causò l'allungamento del tracciato. Dalle sorgenti di  Salone l'acquedotto percorreva un condotto sotterraneo lungo 5 km fino al Fosso della Marranella; da quel punto, per poter arrivare al Pantheon direttamente, sarebbe stato necessario scavare  in profondità, perciò gli ingegneri romani decisero di puntare verso nord, attraversando la Tiburtina, la Nomentana, la valle tra questa e la Salaria, fino ad affiancarsi alla Flaminia.

L'acquedotto attraversava i monti Parioli (sotto il ninfeo di Villa Giulia), perforava il colle Pinciano (sotto Villa Medici) percorrendolo parallelamente a via Margutta, quindi usciva a cielo aperto a metà dell'attuale via Due Macelli, da dove, attraverso una serie ininterrotta di arcate, attraversava via del Nazareno, la piazza di Trevi, e infine scavalcava la via Flaminia (piazza Sciarra), fermandosi a metà di via del Seminario, lungo la fronte del portico dei Saepta.
 
Il 537 fu l'anno in cui il re goto Vitige rese inutilizzabili gli undici acquedotti di Roma, cercando così di prendere la città per sete. Da quel momento in poi, nonostante il restauro di quattro di essi (Traiana, Marcia, Claudia, Vergine), l'esigua popolazione romana si riversò sull'ansa del Tevere, utilizzando l'acqua del fiume, di qualche pozzo e di alcune sorgenti urbane.
 
Tre dei quattro acquedotti restaurati furono probabilmente distrutti dal Guiscardo nel 1084, mentre il Vergine, invece, continuò a funzionare, soprattutto perché la maggior parte del percorso era sotterraneo (19 km su 21 km totali).
La fontana di Trevi nel 1453
 
Per avere un'idea sullo stato dell'acquedotto Vergine nell'altomedioevo mettiamo a confronto due fonti:
  • Secondo il biografo di Adriano I (772-795), l'acquedotto Vergine, dopo il restauro del pontefice, "dissetava quasi tutta la città" (Liber Pontificalis).
  • Nel racconto dell'Itinerario di Einsiedeln (guida di Roma dell'VIII secolo) le arcate del Vergine si interrompevano prima dello scavalcamento della via Flaminia (via del Corso).
Se alla fine dell'VIII secolo l'acqua Vergine "dissetava quasi tutta la città", nonostante l'interruzione delle arcate prima dello scavalcamento di via del Corso, è evidente che doveva esistere una fontana prima di via del Corso, probabilmente vicino alle arcate che passavano nei pressi di un luogo chiamato Treio, toponimo conosciuto a partire dal X secolo (Chronicon di Benedetto).

mercoledì 10 settembre 2014

Eppur si muove: la fontana delle Anfore

Fontana delle Anfore
(foto Marco Gradozzi)
Precarietà è la parola che caratterizza la condizione del genere umano nel XXI secolo, tuttavia, c'è chi vive questa situazione in modo estremo: le fontane di Roma. Proprio in questi giorni una di esse, la famosa fontana delle Anfore (piazza dell'Emporio), sta per cambiare indirizzo. Essa fu progettata dall'architetto Pietro Lombardi (1894-1984), che nel periodo 1926-1929 realizzò complessivamente nove fontane, tutte caratterizzate da un elemento comune: il disegno doveva ricordare un elemento caratteristico della zona.

·         Fontana delle Anfore (piazza Testaccio)
·         Fontana dei Libri (via degli Staderari)
·         Fontana della Botte (via della Cisterna)
·         Fontana delle Tiare (via di Porta Angelica)
·         Fontana della Pigna (piazza San Marco)
·         Fontana delle Palle di Cannone (largo di Porta Castello)
·         Fontana dei Monti (via di San Vito)
·         Fontana degli Artisti (via Margutta)
·         Fontana del Timone (Porto di Ripa Grande)


in alto piazza dell'Emporio
in basso piazza Testaccio
(Google Earth)
La fontana delle Anfore, collocata inizialmente in piazza Mastro Giorgio (oggi piazza Testaccio), fu inaugurata il 26 ottobre 1927. In seguito ad alcuni problemi strutturali la fontana fu poi spostata in piazza dell'Emporio (1935) e il suo posto fu occupato dal mercato rionale. In questi ultimi anni il mercato di piazza Testaccio ha cambiato indirizzo e così, risolti i problemi di stabilità, la fontana delle Anfore sta per essere smontata di nuovo e trasferita nella sua collocazione originaria (forse).
piazza Testaccio
(Google Earth)

lunedì 25 agosto 2014

Acqua azzurra, acqua chiara

La fontana di Niccolò V
Per circa 849 anni, dal 312 a.C. al 537 d.C., l'approvvigionamento idrico non fu mai un problema per i cittadini di Roma, basti pensare che il volume d'acqua di cui disponeva la città in epoca costantiniana, nel 1968 non era ancora stato superato. A partire dal VI secolo la crisi economica e la relativa crisi demografica, insieme ai danni procurati (dai Goti e dai Bizantini) agli acquedotti durante la guerra gotica, resero impossibile la manutenzione di quella gigantesca rete idrica che inevitabilmente si ridusse ai minimi termini; se non scomparve del tutto fu solo grazie a qualche restauro, di cui però beneficiarono soprattutto gli istituti religiosi. 
  La fine degli acquedotti coincise anche con la fine di un certo modo di vivere; la popolazione rimasta in città abbandonò le pendici dei famosi colli, andando ad occupare tutta l'area monumentale, il cosiddetto Campo Marzio. E così, dopo 849 anni, i Romani ricominciarono a bere l'acqua del Tevere. 
  La nuova abitudine diede luogo, nel corso dei secoli, a una particolare figura professionale: il facchino venditore d'acqua, chiamato anche acquarolo, acquarenario, acquafrescaro. Il facchino si riforniva al fiume, o in qualche pozzo privato, oppure si recava nella piazza di Trevi, dove riempiva i suoi contenitori alla fontana del Vergine; questo, unico acquedotto rimasto sempre in funzione, nel 1453 fu parzialmente restaurato da Niccolò V (la fontana nella piazza di Trevi fu realizzata da Leon Battista Alberti). 
  Bere l'acqua di fiume divenne quindi una necessità; tuttavia, nel Cinquecento, alcuni medici che frequentavano la corte papale intrapresero una campagna di persuasione per dimostrare come l'acqua del Tevere fosse senza dubbio migliore di quella trasportata dagli antichi acquedotti. Uno di essi, Alessandro Petronio, nel 1552 scrisse un libro (dedicato a Giulio III) in cui si esaltavano le proprietà dell'acqua tiberina, "ricca di tutte le possibili qualità sia all'olfatto, sia al gusto, soavissima e limpidissima, raccomandabile ad ogni età, utile al fegato, alla milza, ai polmoni, ai nervi". Nel suo entusiasmo Petronio vide addirittura la mano della Provvidenza nella distruzione degli acquedotti operata da Vitige re dei Goti. Anni dopo, nel 1581, nonostante l'acquedotto Vergine fosse stato ormai restaurato (1570), il Petronio scrisse un altro libro, continuando ad esaltare l'acqua tiberina ma ammonendo che per poter godere di tutte le sue qualità l'acqua doveva essere lasciata a spurgare per sei mesi (proprio così). 
  Forse l'accorata difesa dell'acqua tiberina nasceva dal desiderio di Petronio di proteggere dalle critiche papa Giulio III (1550-1555), che proprio in quegli anni aveva fatto costruire appena fuori porta del Popolo la magnifica Villa Giulia (oggi sede del Museo Nazionale Etrusco). Il ninfeo della Villa era alimentato dall'Acqua Vergine, sottratta quindi, in parte, alla pubblica fruizione in piazza di Trevi. 
  Nel 1570 terminò il restauro dell'Acqua Vergine (chiamata anche Acqua di Salone) e finalmente furono create utenze pubbliche  e private. Da questo momento in poi Roma iniziò a vivere una nuova fase, testimoniata dalle bellissime fontane di Giacomo della Porta ... ma questa è un'altra storia.

giovedì 14 agosto 2014

Il giardino di Olimpia

Lungotevere Ripa, che si sviluppa da Ponte Palatino fino al termine dell'Istituto S. Michele, ha un aspetto tranquillo, quasi abbandonato, eppure, basterebbe tornare indietro di 150 anni per ritrovarsi nel caos del porto di Ripa Grande, lo scalo commerciale di Roma cancellato alla fine dell'Ottocento (insieme al porto di Ripetta) dalla costruzione dei muraglioni. Mentre cammino sul lungotevere, cercando di immaginare la baraonda del porto, mi avvicino alle inferriate di un monumentale cancello da cui fuoriesce un bagliore prodotto dal sole di agosto che batte su una curiosa cupola dorata pertinente alla "Casa di Riposo S. Francesca Romana", un antico xenodochium di proprietà dell'antica famiglia Doria-Pamphilj. 

La storia di questo luogo è veramente particolare, infatti, la casa di riposo si affaccia su un giardino molto curato, dove tutto è immobile, dove è persino difficile cogliere un movimento, eppure, a metà del Seicento, lo stesso giardino, arricchito da un Casino-Belvedere, era frequentato dalla famosa "Pimpaccia", cioè Donna Olimpia Pamphilj, che lo utilizzava come spazio riservato per le sue discese a fiume (in romanesco Pimpa era il diminutivo di Olimpia). 

Il giardino di Olimpia
La vita di questa donna fu veramente incredibile, come sono incredibili le storie sul suo conto e come è incredibile il modo in cui riuscì a manipolare i potenti dell'epoca, soprattutto papa Innocenzo X Pamphilj, fratello di suo marito. 

sulla sinistra spicca il Casino-Belvedere
(Gaspar Van Wittel)
Purtroppo di questo luogo così particolare restano soltanto alcune immagini realizzate da famosi pittori: il Casino-Belvedere è stato modificato, mentre l'accesso al fiume è stato interrato e coperto dal Lungotevere Ripa.

martedì 22 luglio 2014

Templum Pacis


L'area del cosiddetto Templum Pacis
Se in questa indecifrabile (meteorologicamente e non solo) estate romana vi troverete a passare per via dei Fori Imperiali potrete notare un'equipe di archeologi intenta a scavare in prossimità della Basilica di Massenzio. La struttura indagata è il cosiddetto Templum Pacis, il tempio dedicato alla Pace (inaugurato nel 75 d.C.) che Vespasiano (69-79 d.C.) realizzò per celebrare la fine di alcune campagne militari svoltesi in Oriente. Il gigantesco complesso (110 x 105 metri) comprendeva una piazza quasi quadrata circondata da tre portici, mentre attraverso il quarto lato (quello rivolto verso piazza Venezia) era possibile raggiungere i Fori adiacenti. 
Il Templum Pacis (disegno Inklink)
La grande piazza era attraversata in quasi tutta la sua lunghezza da sei fontane alte poco più di un metro e di forma molto semplice; si trattava, infatti, di parallelepipedi in laterizio coperti da un velo d'acqua e circondati da cespugli di rose galliche. All'interno dei portici, pavimentati con lastre di marmo pregiato (pavonazzetto e giallo antico), erano esposti molti capolavori provenienti sia dalla Domus Aurea di Nerone sia dal bottino di guerra delle campagne militari, come ad esempio gli arredi del Tempio di Gerusalemme (scolpiti in seguito all'interno dell'Arco di Tito). 
Il pavimento dell'aula in cui si trovava la statua di Pax (foto M. Gradozzi)
Al centro del portico meridionale (quello rivolto verso il Colosseo) era collocato il tempio vero e proprio, all'interno del quale c'era l'aula in cui era custodita la statua di Pax; il pavimento dell'aula era costituito da enormi lastre circolari di pavonazzetto (tuttora visibili) circondate da fasce di porfido rosso (la pietra imperiale). Ai lati del tempio si aprivano due coppie di aule rettangolari: la coppia orientale si trova ancora sotto via dei Fori Imperiali, mentre quella occidentale ha subito vari cambiamenti. 
L'aula più esterna (quella che si affaccia sul Foro Romano) si è conservata perché nei primi decenni del VI secolo divenne la chiesa dei SS. Cosma e Damiano; dell'aula più interna resta la parete su cui erano collocate le 150 lastre di marmo che costituivano la famosa Forma Urbis severiana, una grande planimetria di Roma (18 x 13 metri).

mercoledì 16 luglio 2014

La solitudine di un nome

Vespasiano (foto Marco Gradozzi)
Molti personaggi illustri del passato sono passati all'immortalità grazie al loro nome, perpetuato da generazioni; chi non conosce un Cesare, un Augusto, un Flavio? Tuttavia, se l'imperatore Vespasiano tornasse tra noi sarebbe sicuramente amareggiato nel constatare come il suo nome sia stato principalmente utilizzato per indicare un pubblico WC. E proprio questa particolare accezione potrebbe spiegare l'assenza di un Vespasiano nel nostro calendario oppure tra le personalità del passato (ne ho contati soltanto cinque). È come se la damnatio memoriae avesse colpito questo nome. Eppure, Tito Flavio Vespasiano, figlio di Flavio Sabino e Vespasia Polla, oltre ad essere stato un grandissimo generale, cambiò l'urbanistica di Roma e risollevò le finanze imperiali ormai allo stremo. Probabilmente la popolarità del suo nome fu macchiata dalla famosa tassa sull'urina, uno dei provvedimenti presi per rimpinguare le casse dello Stato. Nell'antichità la fullonica era il laboratorio in cui si smacchiavano oppure si tingevano i vestiti: questo processo era reso possibile dall'ammoniaca contenuta proprio nell'urina; questa veniva versata all'interno di grandi vasche, dove squadre di schiavi pestavano i tessuti immersi, fino al raggiungimento dell'obiettivo. Il proprietario della fullonica, dietro compenso, si riforniva del prezioso liquido presso i proprietari di latrine private. Vespasiano capì che questo business poteva fruttare molto denaro, perciò impose ai proprietari delle latrine una piccola tassa. In un celebre brano, tratto dalla Vita di Vespasiano (liber octavus, XXIII), lo scrittore Svetonio riporta un racconto della tradizione: "Al figlio Tito che lo svergognava perché aveva messo una tassa persino sugli orinatoi, mise sotto il naso il primo denaro ricavato, chiedendogli se l'odore gli dava fastidio; e dopo che questi gli ebbe risposto di no, soggiunse ... eppure viene dall'orina". Da questa annotazione di Svetonio ebbe origine la famosa frase "pecunia non olet" (il denaro non ha odore).

sabato 12 luglio 2014

Il macaco del rione Pigna


Thot (Musei Vaticani)
Una famosa statua del dio Thot, purtoppo acefala, è esposta nei Musei Vaticani, all'interno del Museo Gregoriano Egizio (realizzato nel 1839 da papa Gregorio XVI). Nell'antico Egitto Thot era il dio della scrittura, delle formule divine e magiche, della giustizia nell’aldilà (durante il giudizio Toth pesava le anime dei morti). La statua del dio, rappresentato sia come ibis sia come babbuino, ha originato uno dei toponimi più strani di Roma: S. Stefano del Cacco. Inizialmente la statua era esposta nell'Iseo Campense, il monumentale santuario egizio del Campo Marzio dedicato alla dea Iside. L'Iseo era molto grande, infatti, misurava 240 X 60 metri. Nell'VIII secolo i resti della cella absidata della dea Iside furono inglobati nella chiesa di S. Stefano in Pinea (la Pigna cui fa riferimento la chiesa era la gigantesca pigna bronzea, attribuita alle Terme di Agrippa, attualmente esposta nel cortile del Belvedere in Vaticano), mentre la statua del dio Thot continuò a restare nelle vicinanze della chiesa fino al 1562, quando fu trasferita nel Museo Egizio in Campidoglio.

Thot (Museo del Louvre)
Gli abitanti del rione chiamavano la statua Cacco perché assomigliava a un macaco. La parola macaco, di origine africana, fu importata in Europa dai navigatori portoghesi che nel XV e XVI secolo esplorarono le coste africane. È evidente come il passaggio da "macaco" a "cacco" sia stato piuttosto breve. Diverse statue provenienti dal santuario sono ora sparse in tutta la città: Madama Lucrezia a piazza S. Marco, un colossale piede marmoreo all'angolo di via del Pie' di Marmo, una gatta di marmo a palazzo Grazioli, una coppia di leoni in basalto all'inizio della cordonata del Campidoglio, mentre un'altra (attualmente nel cortile del Belvedere in Vaticano) era collocata sulla balaustra della Mostra dell'Acqua Felice a piazza S. Bernardo.

sabato 5 luglio 2014

Gli androni di Vitruvio

Spesso utilizziamo parole che, se analizzate, non corrispondono al loro significato originario, come la parola "androne", che avremo pronunciato centinaia di volte per indicare, ad esempio, l'ambiente di passaggio tra il portone di casa e le scale. La parola è una delle tante di origine greca che abbiamo assorbito dall'antichità, infatti, la sua radice  andr- deriva dal sostantivo greco anèrandròs (uomo).

Cosa c'entra questa parola greca con un ambiente di passaggio? Ci viene in soccorso Vitruvio attraverso la descrizione degli andronitides, ambienti caratteristici delle abitazioni greche: "… sono delle sale quadrilatere di un'ampiezza tale che in ciascuna facilmente si ricavano sia lo spazio per quattro triclini che aree di servizio e di gioco. In queste sale hanno luogo le riunioni degli uomini; infatti, secondo la loro tradizione, le padrone di casa non vi si sdraiavano (De Architectura, VI, 9)." Stanze per soli uomini, ecco cosa erano gli androni nel mondo greco.

giovedì 3 luglio 2014

Telamone e Atlante

Il telamone di palazzo Spada (foto MG)
Passeggiando per le strade del centro di Roma spesso notiamo sulle facciate dei palazzi (di tutte le epoche) una figura maschile scolpita, impiegata per sostenere trabeazioni e cornici, a volte collocata sotto un balcone oppure inserita nella decorazione di un pilastro. Tale figura è chiamata telamone, come spiega Vitruvio nel suo De Architectura: "Le statue di figure maschili che sostengono mutuli o cornici da noi sono chiamati Telamoni (VI, 9)". Il loro impiego, iniziato nell'antico Egitto dei faraoni, è continuato fino al Novecento.

Nello stesso passo Vitruvio ci informa che "i documenti non spiegano l'origine del nome; i Greci le chiamano Atlanti (VI, 9)". In sostanza, Vitruvio non sa spiegare il motivo per cui quella statua, con quella particolare funzione architettonica, fosse chiamata Telamone dai Romani e Atlante dai Greci. In realtà la differenza è solo apparente, infatti, entrambi i termini contengono la radice tl-, presente sia nel verbo latino tòllere (sopportare, tollerare) sia nel verbo greco tlào (sopportare in senso figurato, cioè portare su di sé). La cosa sorprendente è che anche la radice etrusca tul- (ancora tl-) veniva impiegata con lo stesso significato (M. Pittau), perciò, l'origine della parola latina Telamone potrebbe essere proprio etrusca.


I telamoni dell'Olympieion di Agrigento (V secolo a.C:)
Per quanto riguarda il termine greco, Atlante è un personaggio noto dalla Titanomachia (VIII secolo a.C.), un racconto del Ciclo Epico che narrava la guerra fra i Titani e i figli di Crono (Zeus, Poseidone e Plutone). Atlante era figlio di Giapeto, uno dei Titani. Quando questi furono sconfitti da Zeus, anche i figli furono puniti: Atlante venne condannato a sorreggere l'Universo.

lunedì 16 giugno 2014

Il Moro di Garibaldi

I busti sul Gianicolo ricordano gli eroi della Repubblica Romana del 1849, tuttavia, manca quello del garibaldino più amato. Andres Aguyar morì il 30 giugno 1849, nel corso di un bombardamento avviato dalle truppe francesi filo-papali. Aguyar si trovava in vicolo del Canestraro (oggi vicolo dei Panieri) quando le schegge di una granata lo colpirono alla testa.
Il suo corpo fu trasportato nella chiesa di S. Maria della Scala, vicino a quello di Luciano Manara, il comandante dei bersaglieri spirato anche lui quel giorno. Aguyar era nato a Montevideo, in Uruguay, da genitori africani; fu lo scudiero di Garibaldi in America Latina e in Italia. A Roma divenne subito molto popolare sia per la figura imponente sia per il modo di combattere, infatti, affrontava il nemico utilizzando una lancia a tridente e un lazo. 
Il poeta Cesare Pascarella gli dedicò alcuni versi: " ... appena ar primo razzo de mitraja, lo vedevi, strillanno, che correva co' la lancia framezzo a la battaja."

venerdì 6 giugno 2014

Epos

Da bambino avevo un paio di libri che leggevo e rileggevo in continuazione: il Milione di Marco Polo e l'Iliade di Omero. Il mondo fantastico dell'antica Grecia mi piaceva da matti, ma soltanto molti anni dopo compresi che era popolato da un'innumerevole quantità di eroi e divinità. I nostri antenati li avevano conosciuti attraverso i poemi del cosiddetto Ciclo epico: Titanomachia, Edipodia, Tebaide, Epigoni, Alcmeonide, Canti Ciprii, Iliade, Etiopide, Piccola Iliade, Distruzione di Troia, Ritorni, Odissea, TelegoniaI personaggi di questi poemi furono spesso protagonisti di celebri opere teatrali, ad esempio Edipo e Antigone, Oreste ed Elettra; tuttavia, se non si conosce il "mito", cioè il racconto che li riguarda, diventa poi complicato comprendere fino in fondo lo spettacolo stesso. Con il passare dei secoli la maggior parte dei racconti del Ciclo epico fu dimenticata, quasi perduta, fatta eccezione per l'Iliade e l'Odissea. Fulvio Beschi ha il merito di aver di nuovo raccolto e dato forma unitaria ai tredici poemi, riproponendoli nel libro La leggenda di Troia.

mercoledì 4 giugno 2014

Profumo d'estate

Generalmente durante l'estate metropolitana ci si accorge di persone che durante l'anno non si notano. Sono tipi particolari, spesso con storie difficili alle spalle, perlopiù innocui. 

Qualche giorno fa c'era un bel sole ed io camminavo spedito, quando un tale mi ferma e mi chiede: "... scusi, la messa è già cominciata?"

Sono rimasto senza parole, poi ho capito ... sta arrivando l'estate.

domenica 1 giugno 2014

Il ponte di Caligola

Caio Giulio Cesare Germanico, detto Caligola.
In questi ultimi mesi si discute molto sulla effettiva imparzialità dei giornalisti che si occupano di politica, tuttavia la loro azione diffamatoria è quasi nulla se confrontata con le accuse che Tacito e Svetonio rivolsero alla maggior parte degli imperatori. I più bersagliati furono Caligola e Nerone, descritti come pazzi criminali, assuefatti ad ogni tipo di vizio. Tra imperatori e senatori non correva buon sangue, perciò questi ultimi si vendicarono scrivendo una storia di parte, ricca di aneddoti sanguinosi e bizzarri. Tra quelli che videro Caligola protagonista ce n'è uno, raccontato da Svetonio (70-metà II secolo), che probabilmente non è frutto della fantasia.

A sinistra il molo di Baia, a destra quello di Pozzuoli.
L'imperatore Tiberio, zio di Germanico (militare amato dal popolo romano e padre di Caligola), dovendo scegliere il suo successore, decise di adottare il figlio di quest'ultimo. Qualche tempo dopo, trovandosi a parlare con l'astrologo Trasillo, Tiberio ebbe modo di esprimergli qualche perplessità sul ragazzo. L'astrologo però gli disse di non preoccuparsi, perché Caligola "non ha maggiori probabilità di diventare imperatore che di attraversare a cavallo il golfo di Baia". Divenuto imperatore, Caligola pensò bene di mettere alla berlina l'astrologo Trasillo, perciò fece costruire un ponte di barche,  lungo tremila e seicento passi (circa due chilometri e seicento metri), che dal molo di Baia giungeva fino al molo di Pozzuoli. Terminata l'opera, Caligola andò avanti e indietro sul ponte per due giorni, ovviamente a cavallo.

domenica 25 maggio 2014

CURATOR GNOMONUM

Bruno Caracciolo (foto Marco Gradozzi)
Bruno Caracciolo è un gentile signore che conosce a fondo il funzionamento e l'ubicazione della maggior parte delle meridiane di Roma. Grazie all'associazione Roma Sotterranea abbiamo seguito Bruno in un lungo itinerario, pedalando in scioltezza lungo le strade assolate della capitale. Villa Borghese, via dei Tre Orologi, il quartiere Coppedè, viale Regina Margherita, la Città Universitaria, la chiesa di S. Maria degli Angeli ... proprio quando pensi di avere Roma in tasca, ti rendi conto che ti manca sempre qualche informazione, e finalmente capisci che non ti basterà una vita per conoscere tutto quel che è accaduto nella nostra città in quasi tremila anni di storia. Roma è questa, una città ancora tutta da scoprire.

S. Maria degli Angeli: alle 12 un piccolo raggio solare tocca la meridiana
(foto Marco Gradozzi)

martedì 13 maggio 2014

Catone e la porta

Catone, il famoso "censore", nel descrivere il rito di fondazione utilizzato dagli Etruschi, scriveva (Origines, fr.18): "... chi fonda una nuova città, ari con un toro e una vacca, e dove avrà arato costruisca le mura, dove vuole che sorgano le porte, sollevi l'aratro e lo trasporti e chiami quello spazio porta (trad. De Sanctis)". In sostanza il sostantivo "porta" prende il suo nome dall'atto di alzare l'aratro e "portarlo" più avanti.

mercoledì 7 maggio 2014

La battaglia di ponte Salario

ponte Salario nel Settecento (Piranesi)
Nel febbraio del 537 d.C. si svolse presso ponte Salario uno scontro violentissimo tra i Goti di Vitige e i bizantini di Belisario. Pochi mesi prima (10 dicembre 536) il comandante bizantino Belisario, proveniente da Napoli, entrava trionfalmente a Roma attraverso porta Asinaria (nei pressi dell'attuale porta S. Giovanni), mentre i Goti di Vitige fuggivano a Nord, uscendo da porta Flaminia (l'attuale porta del Popolo). La conquista di Roma, avvenuta sessant'anni dopo la caduta di Romolo Augustolo (476 d.C.), rendeva finalmente reale il sogno dell'imperatore bizantino Giustiniano (i Bizantini si consideravano Romani). Tra dicembre e febbraio Belisario si dedicò al restauro delle mura aureliane, in alcuni tratti molto danneggiate, mentre Vitige tornò a Ravenna. Dopo essersi riorganizzato il re dei Goti decise di riprendersi Roma. Nella sua opera di rafforzamento delle strutture difensive Belisario aveva fortificato anche alcuni ponti, e tra essi ponte Salario, un'antico ponte di epoca repubblicana (o forse addirittura più antico) che consentiva l'attraversamento del fiume Aniene. Il ponte fu dotato di una torre merlata e di due massicce porte lignee. Alla vista dei Goti la guarnigione messa a difesa del ponte fuggì, senza avvertire le milizie bizantine del pericolo incombente.

cavaliere catafratto:
cavallo e cavaliere sono
coperti da un'armatura completa
Quando il mattino seguente Belisario giunse nei pressi del ponte, i Goti lo avevano appena attraversato. Alla vista del comandante bizantino  essi cercarono in tutti i modi di abbatterlo, tuttavia, sia Belisario sia il cavallo, coperti dall'armatura, uscirono illesi dallo scontro. I combattimenti all'arma bianca proseguirono con alterne fortune fino a notte inoltrata, quando finalmente Belisario riuscì a rientrare in città attraverso porta Salaria (era in prossimità dell'attuale piazza Fiume). Fra i Goti si distinse Visando Bandalario, il quale sopravvisse alla battaglia nonostante fosse stato ferito ben tredici volte.

ponte Salario (Google Earth)

l'area della battaglia:
nel cerchio in alto ponte Salario,
nel cerchio in basso porta Salaria
(Google Earth)

lunedì 5 maggio 2014

Il Foro di Augusto

Ieri sera ho potuto finalmente assistere alla ricostruzione virtuale del Foro di Augusto realizzata dal gruppo di lavoro di Piero Angela. Lo spettacolo è all'altezza, e il livello di divulgazione accontenta tutti i palati, secondo uno stile ormai collaudato. La location è, ovviamente, straordinaria, e l'organizzazione mi è sembrata inappuntabile. L'unico neo della bella serata è stato il prezzo del biglietto: 15 euro, per uno spettacolo di 45 minuti, mi sembrano davvero troppi.

A chi volesse approfondire la storia e lo sviluppo (fino ai nostri giorni) dell'area dei Fori Imperiali consiglio senz'altro un bellissimo libro intitolato "I Fori Imperiali, gli scavi del comune di Roma 1991-2007". Il volume è corredato da planimetrie, foto d'archivio e ricostruzioni grafiche (magnifiche) dello studio InkLink.

martedì 29 aprile 2014

Le scuderie di epoca imperiale in via Giulia

Il complesso augusteo
(foto Marco Gradozzi)
Nel 2009 ebbe inizio l'indagine archeologica di un'area, compresa tra via Giulia e il lungotevere (in prossimità del Liceo Classico Virgilio), sulla quale la società Cam, concessionaria del Comune di Roma, avrebbe dovuto costruire 366 box. Gli scavi portarono alla scoperta di un imponente complesso, datato all'epoca augustea, pertinente alle scuderie delle quattro fazioni che gareggiavano nei giochi: la bianca, la rossa, l'azzurra e la verde. 

L'area di scavo (Google Earth)
Nel 2013 il ministro Ornaghi espresse la sua perplessità sulla realizzazione dei parcheggi sollecitando un intervento risolutivo del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Al momento tutto tace ... si attende un segnale di vita dal ministro Franceschini.

mercoledì 23 aprile 2014

Il ponte della (fanta)Scienza

Spero di essere smentito a breve, ma, attualmente, il ponte della Scienza può essere considerato un monumento allo spreco e all'inutilità. L'inizio dei lavori risale al 2008, tuttavia, pur essendo stato terminato lo scorso anno, il ponte (pedonale) non è mai stato inaugurato. L'aspetto più sconcertante è la sua assoluta inutilità, infatti, il ponte mette in comunicazione la zona Portuense/Marconi con l'area industriale del quartiere Ostiense, caratterizzata da edifici e impianti inaccessibili di proprietà dell'ENI. Di fatto, è impossibile raggiungere in tempi rapidi la via Ostiense e quindi le varie facoltà dell'Università Roma Tre. E allora? A che diavolo serve? Ma soprattutto, chi è che ha programmato uno sviluppo urbanistico così folle? Basterebbe osservare la foto satellitare per rendersi conto che il ponte doveva essere costruito più a valle, proprio per mettere in comunicazione il Cavalcaferrovia Ostiense con via Fermi. In tal modo si sarebbe realizzato un unico asse capace di unire via Cristoforo Colombo con la circonvallazione Ostiense, via Fermi, via Grimaldi, la circonvallazione Gianicolense ed infine la via Olimpica.

il ponte della Scienza (in alto), il Cavalcaferrovia Ostiense (a destra) e via Fermi (a sinistra)
foto M. Gradozzi
E ancora ... ma chi è che ha progettato gli arredi del ponte? Forse un parente di Dario Argento? Sembra il set di un film dell'orrore, con il patibolo pronto per essere utilizzato ...


domenica 20 aprile 2014

La collina del progresso

La piccola collina è
l'unico spazio verde dell'isolato
(Google Earth)
Secondo i ricercatori del sito www.bunkerdiroma.it sarebbe ancora riconoscibile la collina da cui,  il 20 settembre 1870, spararono i cannoni che aprirono la breccia di Porta Pia. La piccola altura, circondata oggi da alcuni palazzi che confinano con via Nomentana, via Reggio Emilia, via Alessandria e via Cagliari, faceva parte della settecentesca villa Capizzucchi. Nel 1926 lo spazio verde fu risparmiato dalla cementificazione perché già all'epoca era in odore di "santità".