La fontana di Niccolò V |
Per circa 849 anni,
dal 312 a.C. al 537 d.C., l'approvvigionamento idrico non fu mai un problema
per i cittadini di Roma, basti pensare che il volume d'acqua di cui disponeva
la città in epoca costantiniana, nel 1968 non era ancora stato superato. A
partire dal VI secolo la crisi economica e la relativa crisi demografica,
insieme ai danni procurati (dai Goti e dai Bizantini) agli acquedotti durante
la guerra gotica, resero impossibile la manutenzione di quella gigantesca rete idrica
che inevitabilmente si ridusse ai minimi termini; se non scomparve del tutto fu
solo grazie a qualche restauro, di cui però beneficiarono soprattutto gli
istituti religiosi.
La fine degli acquedotti coincise anche con la fine di un
certo modo di vivere; la popolazione rimasta in città abbandonò le
pendici dei famosi colli, andando ad occupare tutta l'area monumentale, il
cosiddetto Campo Marzio. E così, dopo 849 anni, i Romani ricominciarono a bere
l'acqua del Tevere.
La nuova abitudine diede luogo, nel corso dei secoli, a una
particolare figura professionale: il facchino venditore d'acqua, chiamato anche
acquarolo, acquarenario, acquafrescaro. Il facchino si riforniva al fiume, o in
qualche pozzo privato, oppure si recava nella piazza di Trevi, dove riempiva i
suoi contenitori alla fontana del Vergine; questo, unico acquedotto rimasto
sempre in funzione, nel 1453 fu parzialmente restaurato da Niccolò V (la
fontana nella piazza di Trevi fu realizzata da Leon Battista Alberti).
Bere l'acqua di fiume divenne quindi una necessità; tuttavia, nel Cinquecento, alcuni medici che
frequentavano la corte papale intrapresero una campagna di persuasione per dimostrare come
l'acqua del Tevere fosse senza dubbio migliore di quella trasportata dagli antichi acquedotti. Uno di essi, Alessandro
Petronio, nel 1552 scrisse un libro (dedicato a Giulio III) in cui si
esaltavano le proprietà dell'acqua tiberina, "ricca di tutte le possibili
qualità sia all'olfatto, sia al gusto, soavissima e limpidissima,
raccomandabile ad ogni età, utile al fegato, alla milza, ai polmoni, ai
nervi". Nel suo entusiasmo Petronio vide addirittura la mano della
Provvidenza nella distruzione degli acquedotti operata da Vitige re dei Goti.
Anni dopo, nel 1581, nonostante l'acquedotto Vergine fosse stato ormai restaurato (1570), il Petronio scrisse un altro libro, continuando ad esaltare
l'acqua tiberina ma ammonendo che per poter godere di tutte le sue qualità
l'acqua doveva essere lasciata a spurgare per sei mesi (proprio così).
Forse
l'accorata difesa dell'acqua tiberina nasceva dal desiderio di Petronio di
proteggere dalle critiche papa Giulio III (1550-1555), che proprio in quegli
anni aveva fatto costruire appena fuori porta del Popolo la magnifica Villa
Giulia (oggi sede del Museo Nazionale Etrusco). Il ninfeo della Villa era
alimentato dall'Acqua Vergine, sottratta quindi, in parte, alla pubblica
fruizione in piazza di Trevi.
Nel 1570 terminò il restauro dell'Acqua Vergine
(chiamata anche Acqua di Salone) e finalmente furono create utenze pubbliche e private. Da questo momento in poi Roma iniziò a vivere una nuova
fase, testimoniata dalle bellissime fontane di Giacomo della Porta ... ma questa è un'altra storia.
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