lunedì 14 dicembre 2015

Il Portus Tiberinus

L'area dell'antico Portus Tiberinus (immagine Google Earth)
All'inizio degli anni Trenta l’area situata tra via di Ponte Rotto e vicolo della Catena (chiesa di S. Nicola in Carcere), nel quartiere detto dei Pierleoni, fu destinata al palazzo dell’Anagrafe di Roma. Nel 1935 l’ispezione delle cantine degli edifici interessati aveva rivelato la presenza delle antiche strutture del Portus Tiberinus, il più antico porto di Roma. Quando tutti gli edifici furono demoliti (1936) fu possibile realizzare la planimetria dei resti dell’antico scalo portuale. La pianta ha rivelato un quartiere composto da otto isolati separati tra loro da strade e porticati. 

Planimetria degli otto isolati (in numeri romani)
Le rovine indagate negli anni Trenta appartenevano a edifici datati alla prima metà del II secolo d.C.; questi avevano sostituito ambienti di epoca repubblicana destinati allo stoccaggio, realizzati dopo la bonifica del Velabro. Osservando la mappa si nota come l’area del Porto Tiberino sia compresa tra il vicus Iugarius e il vicus Lucceius; quest’ultimo, attraversata la Porta Flumentana, raggiungeva la riva sinistra (via di Ponte Rotto) in prossimità del Tempio di Portuno (nume tutelare dei porti), da dove era possibile attraversare il fiume grazie al Ponte Emilio (179 a.C.). 

L'area della Porticus Aemilia (Gatti)
Il ruolo sempre più importante assunto da Roma nel corso del III secolo a.C. ebbe come conseguenza una grande crescita del traffico mercantile, perciò fu individuato un approdo più comodo (lungotevere Testaccio) dove gli edili Lucio Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo (193 a.C.) fecero costruire sia il nuovo porto fluviale (l’Emporium) sia un’area di stoccaggio molto più estesa della precedente (la Porticus Aemilia).

Confronto tra i due scali portuali (immagine Google Earth)

venerdì 16 ottobre 2015

Il pittore misterioso di via di Pallacorda

Via di Pallacorda
(foto Marco Gradozzi)
Via di Pallacorda è una strada del rione Campo Marzio, tra via del Clementino e piazza Firenze. Seguendo il tracciato che parte da via del Clementino, quasi in prossimità di piazza Firenze, ci si trova di fronte a un garage piuttosto elegante, un luogo che, come spesso succede nel centro storico di Roma, ha vissuto più volte. Infatti, prima di essere occupato dal garage, il sito fu sede del Teatro della Pallacorda (1715-1936). E prima ancora, all’inizio del Seicento, lo stesso luogo era occupato da un capannone in legno all’interno del quale si giocava la pallacorda, l’antenato del tennis: fu proprio nei pressi di quel capannone che Caravaggio ferì a morte Ranuccio Tomassoni (29 maggio 1606), colpendolo con una piccola spada «nel pesce della coscia» (Ranuccio morì dissanguato perché la spada di Caravaggio colpì la zona dei genitali). Secondo alcune fonti la lite tra i due esplose per motivi legati al gioco, mentre secondo altri Caravaggio volle dare una lezione allo strafottente Ranuccio. Il tragico episodio cambiò completamente la vita del pittore, che, costretto a scappare da Roma, visse da fuggitivo gli ultimi anni della sua vita (†1610). 

La morte di Giacinto
(seguace del Caravaggio,
prima metà del Seicento)
Mettendo un momento da parte la cronaca nera, vorrei parlare di Giovanni di Andrea dell’Anguillara (1517-1572), uno scrittore che nel 1561 aveva pubblicato una particolare versione delle Metamorfosi di Ovidio. Nella sua opera alcuni miti erano stati completamente rielaborati, come ad esempio quello di Apollo e Giacinto. L’antico mito dei due amici (riproposto da Ovidio) descriveva l’ineluttabilità del destino: Apollo e Giacinto si erano sfidati nel lancio del disco ma lo strumento, lanciato da Apollo, prese una strana traiettoria a causa di Zefiro; il disco colpì mortalmente Giacinto alla testa; Apollo cercò di riportare in vita il ragazzo ma non poté nulla contro il destino; per celebrare il ricordo del giovane compagno Apollo fece nascere un fiore, simile al giglio ma rosso come il sangue di Giacinto, sui petali del quale scrisse le lettere del suo dolore (ai ai). Ebbene, nell'opera di Giovanni di Andrea dell’Anguillara la morte del giovane Giacinto non fu provocata da un disco ma dalla “palla solida” utilizzata nel gioco della pallacorda. Questo mito “attualizzato” ebbe talmente successo che fu subito riproposto da vari pittori, tra cui un anonimo seguace del Caravaggio, che realizzò il dipinto pochi anni dopo la tragica lite di via di Pallacorda. Addirittura, secondo alcuni, l’autore potrebbe essere stato presente al fattaccio svoltosi presso il capannone (forse era Francesco Boneri, conosciuto anche come “Cecco del Caravaggio”). In tal caso la citazione sarebbe duplice: la versione del mito di Apollo e Giacinto raccontata da Giovanni di Andrea dell’Anguillara e il fatto di cronaca visto “dal vivo”. 

La morte di Giacinto
(Tiepolo, 1752)
La stessa versione del mito fu dipinta da Giambattista Tiepolo nel 1752; anche in questo caso una racchetta da pallacorda è presente sulla scena.

La freccia indica il Teatro della
Pallacorda (Nolli, 1748)
Il Teatro della Pallacorda

sabato 26 settembre 2015

Il XXII porta male

La fontana delle Api, oggi in via Veneto,
era originariamente collocata all'angolo
di piazza Barberini con via Sistina
(foto Marco Gradozzi).
Quando la fontana delle Api (realizzata dal Bernini) fu inaugurata nel giugno 1644, destò molte polemiche l’iscrizione posta sulla valva superiore della fontana: “Urbano VIII P.M. costruita una fontana a pubblico ornamento dell’Urbe (si riferisce alla fontana del Tritone), a parte costruì questo fontanile per comodità dei privati, nell'anno 1644, XXII del suo pontificato”. In realtà Urbano VIII Barberini era papa da ventuno anni, infatti, l’anniversario del XXII anno di pontificato cadeva nel mese di agosto. Furono così appesi cartelli di protesta che accusavano la famiglia Barberini non solo di aver “succhiato il mondo” ma di volere anche “succhiare il tempo”. Poche settimane dopo l’errore sull'iscrizione fu corretto, tuttavia, il papa non fu fortunato perché morì il 29 luglio 1644, otto giorni prima del XXII anniversario.

lunedì 14 settembre 2015

La fontana di piazza Venezia (1592)

La vasca di piazza Venezia oggi
sul Pincio (foto Marco Gradozzi).
L’antica vasca romana attualmente collocata sul Pincio, in un piccolo slargo di viale Gabriele D’Annunzio, è ormai da decenni ai margini della vita cittadina, invisibile alla massa di gente che quotidianamente scende dal colle verso l’elegante piazza del Popolo; eppure, ne avrebbe di storie da raccontare. Nel Rinascimento era diffusa tra le famiglie romane più importanti l’abitudine di collocare una vasca antica vicino all'ingresso del loro palazzo; ovviamente la vasca era vuota poiché il ritorno dell’acqua a Roma avvenne nel periodo 1570-1612 (acqua Vergine, acqua Felice e acqua Paola). A questa moda non sfuggì neanche Paolo II Barbo (1464-1471) che, nei primi anni del suo pontificato, per abbellire la piazza su cui affacciavano palazzo Barbo e il suo viridarium, fece prelevare dalla piazza antistante la chiesa di S. Giacomo al Colosseo (non più esistente) una vasca in granito, lì pervenuta dalle Terme di Caracalla. Da quel giorno (27 gennaio 1466) la piazza (oggi nota come piazza Venezia) fu chiamata "piazza della Concha" (il latino concha indicava sia il guscio della conchiglia sia qualunque oggetto di tale forma, quindi anche una vasca). 

La vasca di Paolo III Farnese
(Van Cleef, prima del 1545)
La moda della vasca vuota contagiò anche Paolo III Farnese (1534-1549), che fece trasportare di fronte a Palazzo Farnese una vasca proveniente anch’essa dalle Terme di Caracalla (era la gemella di quella di piazza della Concha); lo spostamento avvenne sicuramente prima del 1545, data del disegno in cui Van Cleef illustra una corrida in piazza Farnese (nel disegno gli spettatori sono addirittura all’interno della vasca, probabilmente per proteggersi dal toro). 

Le vasche gemelle di piazza Farnese
nel Settecento (Vasi).
In seguito al restauro dell’acqua Vergine (1570) la Camera Apostolica stabilì che alcune piazze sarebbero state dotate di fontane: tra queste, piazza Venezia e piazza Farnese. Poco prima che l’Acqua Vergine raggiungesse palazzo Venezia (1587) l’influente cardinale Alessandro Farnese (nipote del defunto Paolo III), avendo intravisto la possibilità di avere di fronte al suo palazzo due vasche uguali, fece prelevare da piazza Venezia quella portata da Paolo II, rimpiazzandola con una vasca egizia in granito proveniente da una vigna di sua proprietà (era situata nei pressi della chiesa di S. Lorenzo fuori le Mura). Tuttavia, l’acqua Vergine non giunse mai in piazza Farnese, che fu rifornita soltanto dopo il 1612 (arrivo dell’acqua Paola tramite ponte Sisto). 

Sullo sfondo la fontana di Giacomo 
Della Porta, addossata alla facciata 
del palazzetto S. Marco in 
piazza Venezia (Vasi).
L’architetto comunale Giacomo Della Porta immaginò che la fontana di piazza Venezia meritasse un fondale strepitoso, perciò, il 4 gennaio la colossale statua di Marforio (rinvenuta presso l’arco di Settimio Severo) fu collocata accanto alla nuova vasca di piazza della Concha; incredibilmente però, qualche settimana dopo si decise di spostare l’enorme monumento sul Campidoglio. Finalmente, nel 1592 la fontana di piazza della Concha venne inaugurata; la nuova vasca in granito, addossata al palazzetto S. Marco, fu calata in una piscina scavata appositamente per adattare il suo livello a quello del condotto dell'acqua Vergine. 

Lo sfondo attuale di piazza Venezia
non è più occupato dal (demolito)
 palazzetto S. Marco, ma dal
Vittoriano (foto Marco Gradozzi).
Purtroppo la fontana divenne in breve tempo inutilizzabile, sommersa da terra e sporcizia. Nel 1860 la fontana fu smontata, mentre la vasca fu spostata sul Pincio. Nel 1941 la vasca fu arretrata di qualche metro per favorire la viabilità; nel 1951 fu ripristinata come fontana.

sabato 29 agosto 2015

I privilegiati di via del Babuino

Via del Babuino (strada Paulina) nel 1577 (Duperac)
Le mappe di Roma realizzate nel Cinquecento mostrano come la zona che dalle pendici del Pincio giungeva fino alla strada oggi conosciuta con il nome di via del Babuino fosse ancora poco abitata. Le poche case erano circondate da horti privati, mentre sul colle spiccavano la chiesa della Trinità e villa Crescenzi (poi Medici). Il primo ad occuparsi della strada che metteva in comunicazione piazza delle Trinità (piazza di Spagna) con piazza del Popolo fu Clemente VII Medici (1525), seguito da Paolo III Farnese (1540). Nonostante i lavori la strada, chiamata all'epoca via Paulina, era ancora semideserta e abitata da povera gente, tanto che il tratto prossimo a piazza del Popolo era chiamato Borghetto dei poveri. Per popolare la strada e la zona circostante Paolo III puntò sugli artisti e sugli artigiani stranieri, perciò furono esentati dal pagamento della tassa sulla professione i forestieri che avevano avviato un’attività in via Paulina, così come furono esentati dal pagamento della tassa sulla proprietà gli stranieri che avevano acquistato un immobile nella zona. L’idea di Paolo III ebbe evidentemente successo, infatti, Sisto V (1585-1590) stabilì le stesse agevolazioni per stranieri che sceglievano di lavorare o vivere in via Sistina. Quando questi privilegi furono aboliti da Urbano VIII Barberini (1623-1644), scoppiò il finimondo.

venerdì 7 agosto 2015

La viabilità di Trastevere nell'antichità

Foto 1 - Il tracciato etrusco.
La nascita di Roma è strettamente legata alla ricerca di nuovi percorsi commerciali da parte dei mercanti delle città-stato dell’Etruria meridionale. Il guado del Tevere poco più a valle dell’Isola Tiberina rappresentò per gli Etruschi una valida alternativa rispetto a quello tradizionale situato in prossimità di Ficana (Acilia). Se corrispondono al vero le osservazioni dell’archeologo Raffaele Fabretti (XVII secolo), poi riproposte da Lanciani, il nuovo tracciato etrusco (foto 1) raggiungeva il guado scendendo dal Gianicolo, passava vicino Villa Spada e tagliava la pianura trasteverina all'altezza di piazza S. Cosimato da dove raggiungeva il fiume. La pianura sotto le colline della riva sinistra (Campidoglio e Palatino) divenne il naturale luogo di mercato. All'epoca di Anco Marzio (secondo la tradizione VII secolo a.C.) si decise di agevolare l’attraversamento del fiume mediante un ponte, il primo ponte di Roma: ponte Sublicio. L’etrusco Servio Tullio (VII secolo a.C.) sviluppò urbanisticamente l’area della pianura della riva sinistra bonificandola (Cloaca Maxima), dotandola di Mura, realizzando il Porto Tiberino (è sotto il palazzo dell’Anagrafe), costruendo i santuari di Fortuna e Mater Matuta (area sacra di S. Omobono), sistemando così l’area in cui si sarebbero sviluppati i mercati del bestiame (Foro Boario) e dei legumi (Foro Olitorio). Gli animali che rimorchiavano le imbarcazioni cariche di sale (proveniente dalla foce del Tevere) percorrevano un tracciato parallelo alla riva destra che in seguito sarebbe diventato la via Campana/Portuense. Sulla riva sinistra, all'altra estremità di ponte Sublicio, iniziava la via Salaria, la strada diretta a Porto d’Ascoli che prendeva il nome dalla preziosa mercanzia. 

Foto 2 - La via Aurelia Vetus (verde) e
la via Campana/Portuense (rosso).
Nel III secolo a.C. l’escalation militare di Roma rese necessaria la costruzione di una strada di collegamento con le nuove colonie della costa tirrenica nord-occidentale; probabilmente il nuovo percorso doveva essere più agevole rispetto al vecchio tracciato etrusco che scendeva dal Gianicolo, giudicato forse troppo ripido. Nacque così la via Aurelia vetus, che insieme alla via Campana/Portuense fu all’origine di tutta la viabilità della riva destra. Nel II secolo a.C. il vecchio ponte Sublicio fu sostituito da ponte Aemilius (oggi ponte Rotto, situato poche decine di metri più a monte), punto d’arrivo sia della via Campana/Portuense sia della via Aurelia vetus (foto 2). Il tratto urbano dell’antica via Campana/Portuense corrisponde all'asse viario via dei Vascellari – via S. Cecilia – via di S. Michele, mentre il tracciato cittadino della via Aurelia vetus corrisponde a via della Lungarina - piazza in Piscinula - via della Lungaretta - via della Paglia - vicolo della Frusta – via di Porta S. Pancrazio. 

Foto 3 - Il tracciato diretto al
colle Vaticano (celeste).
In seguito fu possibile raggiungere il colle Vaticano grazie a una strada che si distaccava dalla via Aurelia all'altezza di piazza S. Egidio (via della Scala – Porta Settimiana – via della Lungara); lungo quest’ultimo tracciato (foto 3), in corrispondenza del Ponte di Agrippa (Ponte Sisto), una diramazione (via dei Pettinari) raggiungeva il Campo Marzio. 

domenica 2 agosto 2015

L'arrivo dell'Acqua Felice nel rione Trastevere

Ponte S. Maria (ponte Rotto)
L’approvvigionamento idrico del rione Trastevere cessò nel X secolo, quando si interruppe il flusso dell’Acqua Traiana che Adriano I aveva restaurato nell’VIII secolo. Nel maggio del 1592 iniziarono i lavori per portare l'Acqua Felice sulla riva destra mediante una conduttura inserita nel Ponte S. Maria. Al rione Trastevere furono concesse 15 once, una quantità d’acqua davvero ridicola se paragonata alle 66 once fornite a villa Montalto (la villa urbana di Sisto V). Dopo quattro anni di inutile attesa l’abate Riario, molto interessato all’arrivo dell’acquedotto in quanto possessore di un palazzetto in via della Lungara (di fronte a villa Chigi), ruppe gli indugi e acquistò per 1500 scudi il condotto che dal Quirinale avrebbe dovuto portare l’Acqua Felice fino a Ponte S. Maria. Anche il cardinale Farnese (dal 1579 proprietario di villa Chigi), per non essere da meno, chiese e ottenne una conduttura per la sua residenza. Nel 1598 l’inizio dei lavori sembrava davvero imminente: tre condotti dell’Acqua Felice avrebbero attraversato il Tevere sugli archi di Ponte S. Maria. Tuttavia, il destino si mise di traverso: le piogge continue sollevarono il livello del Tevere che il 24 dicembre superò i 19 metri, provocando il crollo delle arcate di Ponte S. Maria ancorate alla riva sinistra (il ponte era stato restaurato nel 1574). Il Comune non si diede per vinto (le pressioni da parte di Riario e Farnese dovettero essere fortissime) e nel 1603 stabilì di far passare le condutture dell’Acqua Felice sui ponti dell’Isola Tiberina. Finalmente, nel 1604 l’Acqua Felice giunse alla fontana di S. Maria in Trastevere.

martedì 23 giugno 2015

La notte delle streghe

Salomè e S. Giovanni
(Bernardino Luini)
Il solstizio d’estate è sempre stato un giorno speciale, oggetto di particolari celebrazioni. Nel mondo romano il 24 giugno era il giorno in cui si celebrava Fors Fortuna, la dea del destino, della prosperità e della felicità; a lei il re Servio Tullio dedicò un tempio situato al primo miglio della via Portuense. I suoi attributi erano il timone, il globo, la ruota, la cornucopia, il modius, la prua di nave e il caduceo. Nel mondo cristiano il 24 giugno è invece il giorno in cui viene ricordato Giovanni Battista, l’ascetico predicatore che battezzò Gesù. La morte di Giovanni è legata alla figura di Erodiade (la storia è raccontata nei Vangeli di Marco e Matteo), la principessa giudaica che abbandonò il marito per andare a convivere con il cognato (Erode Antipa). Giovanni condannò questa scelta e pagò con la vita le sue critiche, infatti, Erode lo fece imprigionare e decapitare (su richiesta di Salomè, figlia di Erodiade). 

La festa di S. Giovanni
(Ettore Roesler Franz)
La notte che precedeva la festa di S. Giovanni era conosciuta come “la notte delle streghe”. Secondo la tradizione popolare, durante la notte del 23, gli spiriti di Erodiade e Salomè (le cattivone responsabili della morte di Giovanni Battista) volteggiavano sui prati intorno alla basilica del Laterano. Ma siamo a Roma, e allora a tutto c’è rimedio; i cittadini che affluivano in massa nell'area della chiesa scacciavano gli spiriti maligni a suon di "pernacchie", mentre quelli più “scientifici” appendevano al collo una forcina oppure un capo d’aglio. Il colpo di grazia ai diabolici spiriti veniva assestato mangiando l’animale più simile al demonio: la cornutissima lumaca. L’assalto al povero invertebrato, cucinato in tutti i modi possibili, avveniva sui prati intorno alla basilica oppure nelle osterie della città. E poi bevute, cantate e tanta allegria, alla faccia del maligno.

giovedì 11 giugno 2015

I quattro leoni della fontana dell'Acqua Felice

Fig. 1 - La fontana dell'Acqua Felice
in un'incisione di Piranesi.
Nel 1590 l’architetto Domenico Fontana descrisse in una sua pubblicazione (Transportatione I) la fontana dell’Acqua Felice (1587), da lui disegnata per Sisto V, collocata all'angolo con la Strada Pia (fig. 1): “è tutta di travertino con quattro colonne di marmo, al piede delle quali sono messi quattro leoni antichi che gettano acqua per bocca; due di loro sono di porfido bigio pietra durissima, che somiglia al granito orientale, ma è molto più dura, e si sono levati dinanzi al Pantheon … gli altri due sono di marmo statuario, e stavano di qua e di là della porta di S. Giovanni in Laterano.” 

Fig. 2 - Lo stemma di Sisto V
e della famiglia Peretti.
Perché il papa scelse di decorare le vasche della fontana con quattro leoni? Innanzitutto perché il leone era rappresentato nello stemma familiare (fig. 2), inoltre, bisogna sempre ricordare che Sisto V era afflitto da un grande complesso di inferiorità verso il suo predecessore, l’erudito Gregorio XIII (1572-1585), che lo aveva di fatto emarginato dalla corte papale.  Nei cinque anni del suo pontificato Sisto V (1585-1590) cercò in tutti i modi di farsi notare, esibendo una villa enorme (Villa Montalto), spostando obelischi come fuscelli, demolendo monumenti antichi per realizzare fontane (Septizonio); cercò perfino di far rimuovere (senza riuscirci) da piazza del Popolo la fontana di Giacomo Della Porta (fig. 3), fatta costruire – per l’appunto -  da Gregorio XIII (per ironia della sorte il rancoroso progetto di Sisto V fu poi realizzato nel 1823, quando Valadier sostituì la fontana di Gregorio XIII con un’altra, decorata con i quattro leoni tanto cari a papa Peretti). 

Fig. 3 - La fontana di piazza del Popolo
realizzata da Giacomo Della Porta;
attualmente è in piazza Nicosia (Falda).
Tornando ai leoni dell’Acqua Felice, quelli in porfido bigio scuro, antichissimi (IV secolo a.C.), provenivano dall’Iseo Campense, da dove furono spostati, forse nell’Alto Medioevo, per essere trasportati di fronte all’ingresso del Pantheon (fig. 4). Tale spostamento fu determinato sia dall'abitudine - tutta medievale - di “proteggere” l’ingresso della chiesa con una coppia di leoni (nel VII secolo il Pantheon era stato adattato al culto cristiano e trasformato nella chiesa di S. Maria ad Martyres) sia dal desiderio di abbellire il luogo con una piccola collezione d’arte (insieme ai due leoni sono visibili nel disegno due vasche provenienti dalle vicine terme). 

Fig. 4 - I leoni di fronte al Pantheon
in un disegno del XV secolo.
All'inizio del XIII secolo l’inglese magister Gregorius, descrivendo la piazza di fronte al Pantheon (De mirabilibus urbis Romae), raccontò come i leoni stessero insieme a “vasi ed altre statue della medesima pietra”; lì restarono (in pace) fino al 1587, quando Sisto V li utilizzò per la sua Mostra. Nel 1839 papa Gregorio XVI li tolse dalla fontana per collocarli in Vaticano, nel nuovo Museo Gregoriano Egizio (fig. 5). Al loro posto furono inserite delle copie. Gli altri due leoni della fontana, quelli in “marmo statuario” (di fattura medievale), furono prelevati dall'ingresso laterale della basilica di S. Giovanni in Laterano. 

Fig. 5 - Uno dei leoni del Pantheon,
oggi nel Museo Gregoriano Egizio.
(foto Marco Gradozzi)
Nel 1839 Gregorio XVI sostituì anche loro, trasferendoli nel palazzo del Quirinale, dove rimasero sicuramente fino al 1911. La loro ubicazione attuale non è certa ma è possibile che siano quelli attualmente custoditi a Villa Borghese, nel deposito sotterraneo del Museo Pietro Canonica (fig. 7).

Fig. 6 - I leoni di S. Giovanni in
Laterano, oggi nei sotterranei del
Museo Pietro Canonica.

lunedì 8 giugno 2015

Magnanapoli perché?

rosso-largo Magnanapoli
giallo (alto) - Torre delle Milizie
giallo (basso) - Torre Colonna
(foto Google Earth)
Largo Magnanapoli è uno di quei luoghi di Roma dove non ci si ferma mai, soprattutto perché la piazzola al centro funge da rotatoria per le auto, perciò a malapena ci si sofferma a guardare l’aiuola oppure i filari superstiti delle Mura Serviane. E poi c’è Magnanapoli, nome assolutamente insensato e incomprensibile. La genesi di questo toponimo è veramente bizzarra e risale a uno dei momenti più tristi della storia della nostra città. Alla fine della lunghissima guerra tra Bizantini e Goti (535-553) Roma era ai minimi termini; tra assedi, carestie e pestilenze la popolazione si era enormemente ridotta. I Goti erano stati sconfitti, tuttavia, un nuovo nemico si profilava all’orizzonte: i Longobardi (568). Secondo un’ipotesi verosimile (Enzo Valentini, La Torre delle Milizie) le milizie bizantine dell’imperatore Tiberio Costantino (578-582) avrebbero costruito sulle propaggini del Quirinale (dove ora c’è la gigantesca Torre delle Milizie) una cittadella fortificata (Nea Polis), utilizzando in parte i resti delle Mura Serviane. Col passare degli anni le milizie bizantine furono sostituite dalla leva locale; questa veniva reclutata (probabilmente) in prossimità della cittadella, attraverso un bando di arruolamento (il cosiddetto bannum). Ecco quindi le tre parole che sono all’origine del nostro toponimo: Bannum Nea Polis. In seguito, a causa delle trascrizioni amanuensi, il toponimo fu corrotto in Balneapolim, Neapolim, Valneapolis, Bagnanapoli fino ad arrivare all’attuale Magnanapoli. Nel XIII secolo la cittadella fortificata conobbe una nuova fase edilizia grazie alla costruzione di varie torri, fra cui l’enorme Torre delle Milizie e la cosiddetta Torre Colonna (all’angolo tra via delle Tre Cannelle e via IV Novembre). La vicina chiesa dedicata ai santi Domenico e Sisto (largo Angelicum) è stata costruita sul luogo dell’antica chiesa medievale dedicata a S. Maria Balneapolim.

sabato 23 maggio 2015

I leoni di Roma

Villa Pamphilj
(foto Marco Gradozzi)
Nei suoi tremila anni di storia Roma è stata rappresentata, oltre che dalla lupa, da altri simboli che ancora oggi ritornano attraverso le bandiere di vari stati: l'aquila e il leone. Quest'ultimo, in particolare, è importante per ciò che ha rappresentato a livello iconografico nella storia dell'arte della nostra città.

Leone della basilica di S. Marco
(foto Marco Gradozzi)
Il leone guardiano del luogo sacro. Partendo dalla credenza che i leoni nascevano con gli occhi aperti (Plutarco), era diffusa la superstizione che questi fossero aperti sempre; ecco perché nell'antico Egitto le loro statue venivano poste a guardia di un luogo sacro. Tale superstizione continuò anche in epoca cristiana, come testimoniano le coppie di leoni collocate in epoca medievale ai lati dell'ingresso delle chiese romane.

Leone dell'Iseo Campense,
attualmente ai Musei Vaticani
(foto Marco Gradozzi)
Il leone simbolo di resurrezione. Il "Physiologus" era un bestiario alessandrino del II/IV secolo d.C. che raccoglieva descrizioni di animali molto più antiche e spesso inattendibili; in una di esse la leonessa partoriva morto il suo piccolo, quindi lo vegliava per tre giorni finché arrivava il padre che gli soffiava sul volto, donandogli la vita (Aristotele e Plinio il Vecchio). Questa antica tradizione spiega per quale motivo il leone fosse spesso rappresentato nelle religioni salvifiche (culto di Iside, culto di Cibele e cristianesimo).

Il leone emblema delle due nature di Gesù. Traendo spunto dalle conoscenze degli antichi, secondo i quali le principali qualità del leone erano nella parte anteriore, mentre la parte posteriore era semplicemente il punto d'appoggio terrestre, i cristiani immaginavano la parte anteriore dell'animale come l'emblema della natura divina del Cristo, mentre la parte posteriore rappresentava la sua natura umana.

Il leone sulla cordonata
dell'antico palazzo Senatorio
(Heemskerck 1535)
Il leone simbolo della giustizia e immagine del Comune di Roma. Re Salomone ha sempre rappresentato nell'immaginario collettivo la figura del re giusto. Grazie alla Bibbia (Libro dei Re) si diffuse la descrizione del suo trono; per raggiungere il sedile regale si dovevano salire sei gradini, su ciascuno dei quali erano collocati due leoni. I dodici leoni del trono furono in seguito interpretati come i dodici apostoli. Il racconto biblico ispirò probabilmente le autorità comunali romane (1143), che decisero di segnalare con una statua di leone (attualmente nei Musei capitolini) il luogo in cui si leggevano le sentenze e si eseguivano le condanne capitali (la cordonata dell'antico palazzo Senatorio sul Campidoglio). Da quel momento in poi l'immagine del leone, simbolo di giustizia e di potenza, divenne il simbolo del Comune di Roma (gonfaloni e monete). L'identificazione del Comune con il suo simbolo era talmente forte che un leone in carne ed ossa ebbe per circa tre secoli (fino al 1414) un custode e una gabbia sul Campidoglio. Dal racconto di Giuseppe Baracconi (I rioni di Roma, pp. 340-341) emerge l'abitudine dei Comuni medievali ad esibire vivi gli animali che erano rappresentati nello stemma cittadino. Nel 1414 avvenne un fatto che pose fine alla permanenza del leone sul colle capitolino: un ragazzo disattento, avvicinatosi troppo alla gabbia, fu dilaniato dagli artigli della bestia. L'animale fu ucciso e le sue spoglie furono donate al caporione di Ripa, che le seppellì in un giardino di Trastevere. Nel 1471, ad opera di Sisto IV, si verificò il cambio iconografico che tuttora sopravvive: la lupa spodestò il leone. In quell'anno il papa aveva deciso di donare al popolo di Roma le antiche opere bronzee fino ad allora conservate nel Patriarchio del Laterano; la sede prescelta fu il palazzo dei Conservatori, che divenne così il più antico museo pubblico del mondo. La famosa lupa di bronzo (che non è etrusca ma carolingia), dopo quattro secoli di permanenza sul Laterano (nel luogo in cui si amministrava la giustizia), fu collocata sulla facciata del palazzo dei Conservatori, diventando il nuovo simbolo della città. Trasformare il palazzo dei Conservatori in un museo, e addirittura cambiare il simbolo cittadino, sancì la fine (anche iconografica) dell'autonomia comunale dal potere ecclesiastico.

mercoledì 13 maggio 2015

L'inverosimile storia delle mani mozzate dall'obelisco di Villa Celimontana

Fig. 1 - L'obelisco Matteiano
(foto Marco Gradozzi)
Dall'alto dei suoi tremila anni di storia Roma è una fonte inesauribile per chi è in cerca di avvenimenti da raccontare. Tra quelli particolari, alcuni sono realmente accaduti, mentre altri sono assolutamente inverosimili, come la celebre "leggenda metropolitana" delle mani mozzate dall'obelisco di Villa Celimontana (fig. 1). La terribile storia era inserita in un piccolo libro del 1885 intitolato Curiosità Romane, concepito dall'autore (Costantino Maes, 1839-1910) come una raccolta di aneddoti avvenuti in varie epoche. La leggenda raccontata da Maes prendeva spunto da un fatto realmente accaduto nei primi anni dell'Ottocento, ossia il restauro e lo spostamento dell'obelisco Matteiano. 

Fig. 2 - piazza del Campidoglio all'inizio
del Cinquecento; al centro l'obelisco,
sullo sfondo la torre delle Milizie,
a destra il palazzo Senatorio (Heemskerck)
Verso la metà del Cinquecento la famiglia Mattei aveva acquistato una vigna incolta sul Celio, trasformandola in pochi anni in una bellissima villa decorata da statue e fontane. Il colpo finale fu l'obelisco. Questo, da decenni a terra presso la chiesa di S. Maria in Aracoeli, venne donato nel 1582 a Ciriaco Mattei dal Consiglio Segreto del Comune di Roma (fig. 2). 

Fig. 3 - La collocazione originaria
dell'obelisco Matteiano (Falda)
Il monumento, per la cui messa in opera erano stati ingaggiati i famosi Domenico e Giovanni Fontana, fu collocato al centro di un giardino, come se fosse la spina di un antico circo (fig. 3). Nel corso del tempo si alternarono vari proprietari, finché nel 1813 villa Mattei fu acquistata dal politico spagnolo Manuel Godoy (fig. 4), che nel 1817 fece spostare l'obelisco nell'area del "belvedere" (dove si trova tuttora). 

Fig. 4 - Manuel Godoy
In questo contesto si inserisce il racconto "leggendario": durante la cerimonia di inaugurazione organizzata da Godoy per il nuovo sito dell'obelisco una delle funi che lo tenevano sospeso si sarebbe rotta, lasciandolo cadere sulle mani di un operaio intento a pulire il relativo basamento. Tragedia, mani mozzate, addirittura un gomito amputato. Nel 2009 la Sovraintendenza ai Beni Culturali ha restaurato l'obelisco ed è probabile che il primo pensiero dei tecnici sia stato proprio relativo a un eventuale ritrovamento dei resti di quelle povere mani, infatti, nella relazione finale si evidenzia come "non sia stata rinvenuta alcuna traccia" del tremendo incidente.

venerdì 1 maggio 2015

Il complesso di Sisto V

Fig. 1 - Felice Peretti francescano
Durante il papato di Sisto V (1585-1590) alcuni luoghi di Roma cambiarono radicalmente aspetto, tuttavia, questa iperattività urbanistica potrebbe essere stata determinata non da un chiaro progetto di sviluppo urbano quanto, piuttosto, da un rancore di vecchia data. Nel 1565 il vescovo francescano Felice Peretti (fig. 1) era stato inviato in Spagna (in veste di teologo) al seguito del cardinale Ugo Boncompagni, giudice della Santa Sede chiamato a verificare il comportamento "poco ortodosso" dell'Arcivescovo di Toledo. Il rapporto tra i due prelati non decollò mai (eufemismo), forse perché l'erudito cardinale riteneva il Peretti poco raffinato per la corte pontificia, o forse perché lo vedeva troppo dedito alla cura della sua villa sull'Esquilino. Quando il cardinale Boncompagni fu eletto papa (Gregorio XIII, 1572-1585), il Peretti - divenuto nel frattempo cardinale - scomparve dalla scena, emarginato dalla vita di corte. 

Fig. 2 - La mostra dell'acqua Felice
(foto Marco Gradozzi)
Tuttavia, come spesso accade, la fortuna cambiò verso, e infatti, nel 1585 il successore di Boncompagni fu proprio il Peretti, che prese il nome di Sisto V. La sua attività urbanistica fu inarrestabile, tracciò strade, rialzò obelischi, condusse a Roma l'acqua Felice (progettata da Gregorio XIII), fece realizzare fontane memorabili, come la mostra dell'acqua Felice in largo di Santa Susanna (fig. 2), monumento che in parte è possibile spiegare anche attraverso la conoscenza della (sofferente) condizione psicologica di Sisto V. In sostanza, io credo che alcune scelte artistiche legate alla fontana derivino dall'enorme complesso d'inferiorità che affliggeva il pontefice. La fontana terminale dell'acqua Felice, realizzata dai fratelli Domenico e Giovanni Fontana (nomen omen), fu inaugurata nella piazza di S. Susanna il 15 giugno 1587, pur essendo priva degli ornamenti definitivi, infatti, all'epoca del'inaugurazione le due Fame (in alto ai lati dello stemma di Sisto V), la statua del Mosè (opera di Prospero Antichi e Leonardo Sormani), i due pannelli laterali e i quattro leoni non facevano ancora parte della struttura. Per accelerare i lavori Sisto V scrisse un documento (chirografo del 30 novembre 1587) in cui si proibiva a chiunque, soprattutto ai rappresentanti comunali, di intralciare l'opera del suo architetto preferito (Domenico Fontana), sempre alla ricerca di materiali pregiati per la realizzazione delle parti mancanti. 

Fig. 3 - Il luogo della fontana all'epoca
di Gregorio XIII (Cartaro 1576)
Pochi mesi prima di morire, forse ispirandosi - con umiltà - alle Res Gestae di Augusto, Sisto V pubblicò una Bolla (Supremi cura regiminis, 19 febbraio 1590) in cui elencava le sue imprese edilizie. Il documento è molto interessante perché descrive anche il contesto topografico; ad esempio le "macerie infinite" che rendevano piazza di S. Susanna "ineguale e deforme" furono demolite per migliorare la prospettiva della fontana. Purtroppo le cosiddette macerie che ostacolavano il passaggio dell'ultimo tratto dell'acquedotto altro non erano che i resti colossali delle terme di Diocleziano, all'epoca ancora visibili (fig. 3).

Nel suo resoconto Sisto V descrive alcuni elementi della fontana:
·         la statua di Mosè nel nicchione centrale (Mosè fa scaturire l'acqua da una rupe nel deserto; Antico Testamento, Libro dei Numeri)
·         il rilievo di Aronne nel nicchione di sinistra (Aronne conduce il popolo ebreo assetato alle acque; Antico Testamento, Libro dei Numeri)
·         il rilievo di Gedeone nel nicchione di destra (osservando il modo di bere dei soldati, Gedeone ne sceglie trecento per combattere contro il popolo di Madian; Antico Testamento, Libro dei Giudici)


Fig. 4 - Giosuè
Esaminando oggi la fontana è evidente come il rilievo del nicchione di destra (fig. 4) non rappresenti Gedeone ma Giosuè e il popolo d'Israele che attraversano il fiume Giordano (Antico Testamento, Libro di Giosuè); lo stesso architetto Domenico Fontana lo aveva scritto nella sua opera (Tranportatione): "negli altri due nicchi si mostra l'istoria di Aron e di Giosuè". Com'è possibile? Sisto V prese un abbaglio? L'unica spiegazione possibile è che nel 1590 il rilievo definitivo non fosse ancora stato realizzato, perciò, probabilmente, Sisto V vide soltanto alcuni bozzetti; in seguito, per un motivo ignoto, la scelta cadde su un altro episodio dell'Antico Testamento. 

Fig. 5 - La fontana di Gregorio XIII
a piazza del Popolo (Duperac 1577)
Torniamo adesso al complesso d'inferiorità, maturato - secondo me - all'epoca del cardinale Boncompagni. Nel suo breve, ma intenso, pontificato Sisto V cercò in ogni modo di cancellare la popolarità del suo predecessore, collocando in piazza del Popolo un enorme obelisco a ridosso della fontana che aveva lo stemma di Gregorio XIII (figg. 5-6), cancellando dalla "somità della fabrica di Montecavallo un Drago dorato di statura assai grande" (il drago era nel blasone della famiglia Boncompagni), non pagando i debiti contratti da Gregorio con i Gesuiti del Collegio Romano (Avvisi di Roma, 8 maggio 1585), creando una villa urbana di dimensioni enormi (fig. 7), ma soprattutto paragonandosi a Mosè (fig. 8). 

Fig. 7 - Confronto tra l'enorme villa di
Sisto V e la villa del Quirinale
Infatti, mi sembra piuttosto evidente (e maldestro) il messaggio che Sisto V cercò di veicolare attraverso la statua del profeta:
Fig. 6 - L'obelisco di piazza del Popolo
(Maggi 1625)
come Mosè aveva fatto scaturire dalla roccia l'acqua che avrebbe dissetato il popolo d'Israele, così il papa, novello Mosè, aveva condotto a Roma un nuovo acquedotto che avrebbe dissetato la popolazione. 

Fig. 8 - Mosè
Una ulteriore conferma del disagio psicologico di Sisto V si manifesta nella sproporzionata iscrizione, alta quasi come i nicchioni, in cui viene raccontata sommariamente l'impresa. Nessun pontefice si era mai esposto così tanto prima di allora.

domenica 26 aprile 2015

La più antica tipografia di Roma

Gli ambienti dell'antica tipografia di
piazza dei Massimi (foto Marco Gradozzi)
Tra Campo de' Fiori e Piazza Navona, a ridosso dell'antica via Papale, si apre piazza dei Massimi, un luogo veramente caratteristico se non fosse letteralmente sommerso dalle automobili in sosta a qualunque ora del giorno e della notte. Al centro dello slargo, quando non è nascosta dalle auto, c'è una colonna, forse l'unica superstite dell'antico Odeon di Domiziano che in realtà dovrebbe trovarsi sotto la piazza, a qualche metro di profondità. Sulla facciata affrescata del palazzo di proprietà della famiglia Massimo, al livello del pianterreno, spicca un'epigrafe che ricorda un avvenimento importantissimo; è qui, infatti, che nel 1467 fu stampato per la prima volta un libro a Roma.

L'epigrafe celebrativa di piazza
dei Massimi (foto Marco Gradozzi)
Nella seconda metà del Quattrocento i tipografi tedeschi Arnold Pannartz e Konrad Sweynheym, forse allievi/operai di Gutenberg (1455), lasciarono Magonza per raggiungere il monastero benedettino di S. Scolastica a Subiaco. Probabilmente i monaci percepirono le grandi potenzialità dell'invenzione di Gutenberg (la stampa a caratteri mobili), che utilizzarono per diffondere le numerose opere conservate nella biblioteca del monastero. Nel 1467 i due tipografi tedeschi lasciarono Subiaco per recarsi a Roma, dove presero in affitto alcuni locali ("iuxta Campum Flore") di proprietà di Pietro e Francesco "de Maximis", esponenti di un'importante famiglia romana di mercanti e banchieri, con interessi anche nel commercio del piombo, dello stagno, dell'antimonio e della carta (materiali fondamentali nella tipografia). La scelta del luogo in cui installare la tipografia non fu assolutamente casuale; fin dal Trecento erano conosciute nel rione S. Eustachio sia le scuole sia le biblioteche di S. Agostino e di S. Maria sopra Minerva, a due passi da piazza Navona. Nella seconda metà del Quattrocento papa Eugenio IV (1431-1447) acquistò, sempre nel rione S. Eustachio, alcuni immobili destinati allo Studium Urbis, l'università di Roma. È perciò comprensibile il motivo per cui in questa zona fossero concentrate le attività commerciali legate al mondo della cultura (vendita di libri stampati, di libri manoscritti, di carta e pergamene). E fu proprio negli ambienti al pianoterra di palazzo Massimo che, nel 1467, i due tipografi tedeschi stamparono la loro prima opera romana, le "Epistulae ad familiares" di Cicerone.

lunedì 20 aprile 2015

La lupa, il leone e il drago ... quando le fontane parlavano

Palazzo Capilupi
(foto Marco Gradozzi)
È noto a tutti come le fontane di Roma abbiano una vita propria, perciò non solo camminano, ma parlano, soprattutto tra loro. Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento ebbe luogo a Roma una vera e propria rivoluzione culturale, grazie alla conduzione della rinnovata Acqua Vergine (agosto 1570), dell'Acqua Felice (1587) e dell'Acqua Paola (1612); finalmente, dopo molti secoli, i romani non erano più obbligati a bere l'acqua del Tevere. Com'è facile immaginare, il Comune e la Camera Apostolica ricevettero moltissime richieste di allaccio alle condutture dei nuovi acquedotti. Fu in questo contesto che nacquero le prime fontanelle semipubbliche. I privati che ottenevano l'acqua avevano l'obbligo di  realizzare la fonte a proprie spese, inoltre, dovevano mantenerla efficiente; osservando questa disposizione, il privato poteva utilizzare l'acqua di ritorno che, anziché defluire nelle fognature, era condotta nella sua proprietà. 

L'iscrizione della fontana della Lupa
(foto Marco Gradozzi)
Nel 1578 l'ecclesiastico mantovano Camillo Capilupi, proprietario di un palazzo in via dei Prefetti (civico 17), chiese al Comune la concessione di un certo quantitativo d'acqua che doveva alimentare "una fontana pubblica da esso e dai suoi fratelli edificata nel detto rione". Come stabilito, Capilupi collocò la fontanella in strada, all'angolo del proprio palazzo. Per la decorazione della fonte (ormai scomparsa) Capilupi si ispirò al proprio cognome, come ci fa sapere un Anonimo (1588), che la descrive come una "una fontana grottesca con mezza statua di lupo, la cui bocca dà l'acqua in un piccolo vasetto o conca, dietro la quale grottesca è essa lupa". Al di sopra della fontana Capilupi fece collocare un'iscrizione (tuttora visibile nell'androne del palazzo) da lui creata: "Come il dolce latte dette (la lupa) non feroce ai gemelli, così questo lupo mite ti offre, o vicino, quest'acqua che scorre continua, più dolce anche del latte, più pura dell'elettro, più fredda della neve. Pertanto di qui, il ragazzo, il giovane, il vecchio portino assidui a casa le linfe con una brocca ben tersa. Ma questa fontanina è proibita ai cavalli ed agli asinelli, e nemmeno vengano a bere con la bocca indecente né il cane, né il capro. 1578". 

L'iscrizione della fontana del Leone
(foto Marco Gradozzi)
Un anno dopo la realizzazione della fontana di via dei Prefetti (le fontane hanno i loro tempi) comparve la risposta ai versi del Capilupi. Un privato costruì la sua fontanella semipubblica a ridosso di un edificio situato in fondo a via di Panico, quasi all'angolo con piazza di Ponte (nell'Ottocento l'archeologo Carlo Fea la ricorda vicino al civico 62). Questa, che aveva l'aspetto di "un leoncino tra sassi, a guisa di quella di Capilupo in Campomarzo" (Anonimo del 1588), era accompagnata dall'ormai consueta epigrafe poetica: "Come il lupo nel Campomarzio, più mansueto di un agnello, dalla bocca distribuisce al popolo l'acque vergini, così pure qui un leone più mite di un capretto dalla bocca spande l'onda illustre cui presiede la Vergine. Non c'è da meravigliarsi, un Drago che pio comanda su tutta la terra, col suo esempio rende tranquilli l'uno e l'altro. 1579". 

La fontana del Leone
(foto Marco Gradozzi)
Il Drago che sapeva calmare sia il lupo che il leone era Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585), il papa che diffuse l'istituzione delle fontanelle semipubbliche. L'autore dell'iscrizione citò l'animale (rappresentato nello stemma della famiglia Boncompagni) per farci sapere chi era papa al momento della costruzione della fontana. Nel 1930, in seguito alla scomparsa dell'isolato tra via di Panico e via Tor di Nona, la fontanella del leone e la sua epigrafe furono spostate sulla facciata esterna del convento di S. Salvatore in Lauro, costantemente nascoste da automobili e motorini ... ma questa è un'altra storia.